MILANO, mercoledì 13 febbraio (di Paolo A. Paganini) Il teatro de Gli Incamminati compie quarant’anni.
Fondato nel 1979 da Emanuele Banterle insieme con Giovanni Testori (e con la partecipazione d’un appassionato gruppo universitario di ciellini), in questi quattro decenni ha fatto opere memorabili. E coraggiose. Anche adesso, è un teatro che accetta le sfide.
“I Miserabili” (1862) di Victor Hugo sono un’eroica e disperata sfida, una generosa scommessa.
Il caotico (e perfetto) romanzo sociale del padre del Romanticismo francese, con le sue 1500 pagine (la narrazione va dal 1815 al 1833, dalla Restaurazione alla rivolta antimonarchica del ’32), è ora affrontato da tredici attori, Franco Branciaroli in testa, che, in due tempi di un’ora e quindici minuti ciascuno, si son buttati in un’impresa disperata, che ha dovuto rinunciare a ogni idea di grandezza. Ne è così sortita, al Piccolo Teatro Strehler (di per sé sordo e infelice, se non supportato da impianti di amplificazione), un’operazione intimista, con molte parole e pochi fatti, con cedimenti e tentazioni rivolte più al melodramma che non a quell’eccelso affresco, che, pur nato come feuilleton, è diventato la bibbia del romanticismo.
In altre parole, un sacro testo laico, che esaltava la santità di un’umanità sofferente e grandiosa, a cominciare dagli strati più bassi della società francese, cioè miserabili, prostitute, ex forzati, monelli da strada, studenti squattrinati, poveri carrettieri, avidi tavernieri, taglieggiatori e assassini.
Quel romanzo, per parlarne a ritroso (il periodo della nostra antica generazione), ha alimentato e saziato avide letture, connaturate di cultura classica, e d’inguaribile romanticismo. E quante lacrime alla morte di Jean Valjean, con quei due candelabri rubati all’incipit (quasi) del romanzo nella casa di Monsignor Myriel, ed ora rispuntati ai lati del moribondo ex galeotto, ormai redento e santo (che indimenticabile e sconvolgente coup de théâtre da parte di Victor Hugo, alla fine del romanzo).
Il romanzo, a volerlo semplificare all’osso, sta tutto lì, in quei due simbolici e santifici candelabri, che spuntano dalla carità di un santo prete, per poi riapparire, alla fine, nella redenzione di un santo galeotto. Nel frattempo, fra l’inizio e la fine, mentre incombe, lungo tutto il romanzo, la tetra e inesorabile presenza dello sbirro Javert (Francesco Migliaccio), è tutto un gioco di contrasti, di opposizioni, di antinomie. Il bene e il male, il popolo generoso e canaglia, la vita gloriosa e miserabile, l’uomo infinitamente grande e infinitamente misero; e poi, in un continuo manicheismo, generosità e turpitudini, l’orrido e il bello, in un susseguirsi di desideri, emozioni, istinti, eroismi e bassezze. Il poeta Lamartine (altra passione giovanile, ah, la sua “Graziella”), ebbe a chiosare: “L’epopea della canaglia, romanzo del popolo, ora crapulone ora sognatore, spesso sublime, talvolta dannoso, sovente eroico“.
L’inflazionato romanzo venne più o meno manomesso dal cinema (quasi una trentina di film tra muti e sonori: nel ’47 con Gino Cervi, nel ’52 con Michael Rennie, nel ’57 con Jean Gabin e Bernard Blier, nel ’78 con Richard Jorda, ’82 con Lino Ventura, nel ’95 con Jean-Paul Belmondo, nel ’98 con Liam Neeson eccetera) e dalla TV (ma ricordiamo il rispettoso sceneggiato in 10 puntate, di Sandro Bolchi, 1964, fedele affresco storico, con Moschin, Lazzarini, Albani, Carraro,Vannucci ecc). Inoltre, fin dal 1862 (!), si sono ispirati numerosi adattamenti teatrali. E poi musicals e fumetti.
Ora si cimentino anche Gli Incamminati. Ciò non è né scandaloso né temerario. Dipende da come li fai, questi Miserabili. E questi son fatti di mala grazia. Brutte scene (una trentina di alti pannelli mobili che come quinte, via via, compongono alla buona i vari spazi teatrali, utilizzando gli stessi attori come uomini di fatica). Luci sempre in penombra, forse ispirate a un’idea dei bassifondi di Parigi. Recitazione sotto tono, smorzata in complici e confidenziali borbottamenti. Lo stesso Branciaroli, che vanta notoriamente chiare e forti doti fonetiche, appare nel ruolo di Jean Valjean come intimorito, povero di voce e di carisma, quando invece dovrebbe sprigionare, attraverso il suo personaggio, la sofferta ascesa dalla miseria morale al suo grande amore per l’umanità sofferente, che, attraverso il bene, diventerà l’unica forma espiatoria e purificatrice del male.
Tutto invece scorre, con sorprendente velocità e bruschi passaggi di spazio e di tempo, come un freddo bigino, con una volontà sinottica da “bignami” dei Miserabili. Dove non c’è più grandezza, né commossa partecipazione, ma solo formalismo freddo e schematico. Compresa la seconda parte, con la rivolta del popolo sofferente e con la morte dell’eroico monello Gavroche. Fine della rivolta. Carrellata sul grande amore di Cosette e Marius. Fine sbrigativa di Jean Valjean, che non ha nemmeno la consolazione d’un letto di morte, ma agonizza ai piedi del giaciglio. Per consentire la sacra rappresentazione di Cosette e Marius, che abbracciano il povero ex galeotto, un povero Cristo, ideale Pietà, in triangolata composizione leonardesca.
“I Miserabili”, di Victor Hugo, adattamento teatrale Luca Doninelli, regia di Franco Però. Con Franco Branciaroli e (in ordine alfabetico): Alessandro Albertin, Silvia Altrui, Filippo Borghi, Romina Colbasso, Emanuele Fortunati, Ester Galazzi, Andrea Germani, Riccardo Maranzana, Francesco Migliaccio, Jacopo Morra, Maria Grazia Plos, Valentina Violo. Scene Domenico Franchi. Costumi Andrea Viotti. Al Piccolo Teatro Strehler (Largo Greppi, Milano). Repliche fino al 24 febbraio 2019. Produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, CTB Centro Teatrale Bresciano, Teatro de Gli Incamminati.
Informazioni e prenotazioni 0242411889
www.piccoloteatro.org