NOSTRO SERVIZIO – VENEZIA, domenica 4 agosto ► (di Paolo A. Paganini) – “Il giardino dei ciliegi” è l’ultima opera di Anton Cechov. Scritta nel 1903 e messa in scena nel 1904 a cura di Stanislavskij (Cechov morirà di tubercolosi pochi mesi dopo), nelle intenzioni dell’autore era nata come commedia, ma per i complessi problemi sociali emergenti qua e là e per la storia d’una famiglia in dissesto economico, simbolo dell’aristocrazia russa, nei quattro atti dell’opera, fin da allora si preferì privilegiare un’angolazione più angosciante. Una tragedia, insomma, a scapito della commedia, pur con sprazzi di autentico divertimento.
Narra la decadenza dell’aristocrazia russa e la nascita di una borghesia ancora senza radici. Nel 1861 erano stati aboliti i servi della gleba, fino allora autentici schiavi al servizio di padroni. Ma, in seguito al nuovo status sociale, i vecchi e inetti aristocratici, senza più servitù che provvedeva alla loro vita e ai loro problemi quotidiani, si erano trovati incapaci di adeguarsi e reagire al cambiamento dei tempi. E fu l’inizio della loro definitiva decadenza.
Qui, c’è la vasta tenuta di una famiglia aristocratica, con un famoso giardino di ciliegi, che, per far fronte ai debiti, dovrebbe essere venduto, sacrificando la casa e il giardino di una felice giovinezza, e consentire così, tagliati gli alberi, la costruzione di villette per turisti e ricchi borghesi, molti dei quali, figli o nipoti di vecchi e sfruttati servitori.
La storia ruota tutta intorno alla vendita di questo giardino e all’addio dei suoi inetti e spensierati proprietari.
Non staremo ad approfondire la trama, già conosciuta per tanti allestimenti e versioni cinematografiche (e nel ricordo, per i più anziani, dello struggente allestimento poetico di Strehler, nel 1978). Ma entreremo subito nel merito della mess’in scena di Alessandro Serra, quasi in chiusura della Biennale veneziana. In coproduzione con più enti (sardi, veneti, piemontesi e milanesi), questa edizione – che vedremo anche in stagione – si avvale di una generosa e ben amalgamata equipe attoriale: Arianna Aloi, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Marta Cortellazzo Wiel, Massimiliano Donato, Chiara Michelini, Felice Montervino, Fabio Monti, Massimiliano Poli, Valentina Sperlì, Bruno Stori, Petra Valentini. E un giusto valore di merito ad Alessandro Serra, soprattutto per scene, luci e costumi.
Ma, per la regia, il discorso è un altro.
Serra, rispetto alle nostre note iniziali, ha voluto soprattutto valorizzare la commedia a scapito della tragedia. È una scelta rispettabile. È pur vero che questa stordita e scapestrata famiglia aristocratica, anziché piombare nel tedio e nell’inedia di una malinconica, rassegnata e tipica morta gora russa, preferisce, fino in fondo (due tempi, uno di un’ora e venti e l’altro di un’ora e dieci), dedicarsi a musiche e oziosi passatempi (qui, come s’è detto, nessuno lavora). E, in questa chiave, Serra ha fatto un mastodontico lavoro, con un generoso gioco di squadra. Ma nell’infelice Piccolo Arsenale, bello agli occhi ma penalizzante per le orecchie, risulta esplosivamente confuso e tortuoso, anche per una singolare predisposizione del regista per una coralità e un gioco di composizioni coreutiche da opera lirica. E, tra risate scherzi giochi e lazzi (in una scena decisamente brutta), la storia del “Giardino” va a farsi benedire in un eccesso di invenzioni e di trovate che lasciano poco margine alla comprensibilità dell’opera e del pensiero cechoviano. Ci sarà bisogno di tagli e aggiustamenti. Il materiale c’è.
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Sempre in serata c’è stato anche lo sconcertante e incomprensibile e provocatorio “allestimento” (si fa per dire) di “I’m Not Here Says the Void”, prima italiana (60’), regia di Julian Hetzel, con Claudio Rietvelt e Julian Hetzel, sì, proprio lo stesso regista, che ci era tanto piaciuto, il giorno prima, con “All Inclusive”. Qui si tratta di una stramberia senza senso, tra srotolamenti di teloni di plastica, interminabili sedute in silenziosi attendismi, fino alla distruzione, un filo alla volta, un pezzetto alla volta, dello stesso divano. Beh, una Biennale, per la curiosità delle umane genti di “esperti” e appassionati, regge anche simili performance. Fine.