PRATO, venerdì 21 maggio ► (di Carla Maria Casanova) – Chi l’ha detto che nel baule del solaio chiuso da generazioni si debba trovare solo lo scheletro dell’incauto amante della trisavola un po’ birichina?
Nella sua casa di Prato, Iva Pacetti, grande soprano anni Trenta/Quaranta, appunto nel classico baule, depose i preziosissimi costumi di Turandot, suo ruolo cavallo di battaglia, che aveva ottenuto (forse acquistato) dalla Scala in occasione del suo debutto nel Teatro milanese (1939).
Allora le grandi artiste usavano formarsi un guardaroba teatrale personale che si portavano appresso, il che facilitava loro il periodo prove e aboliva il tirocinio delle prove di costume. Poi succedeva che in uno spettacolo si vedesse un’accozzaglia di costumi e stili del tutto diversi, tra protagonisti e coro, ma pare che nessuno ci facesse gran caso.
Finché non arrivò “il” regista.
In sintesi: Iva Pacetti lasciò le scene nel 1947 e dimenticò il suo baule, con i costumi dentro… Si credettero persi per sempre.
L’allestimento scaligero della prima della Turandot (1926, diretta da Toscanini) era stato storico, di una magnificenza mai vista. Puccini, che la sua opera non vide mai in teatro (morì a Bruxelles nel 1924), aveva scelto per le scene il grande Galileo Chini. Quanto ai costumi, Puccini aveva inizialmente designato il celebre illustratore Filippo Brunelleschi ma la Scala volle affidarli a Luigi Sapelli, alias il mitico Caramba, per oltre vent’anni suo costumista ufficiale. Quanto ai gioielli di scena, altra realizzazione leggendaria (vedi il celeberrimo diadema di Turandot che Maria Callas trent’anni più tardi si fece copiare per sé) erano stati disegnati dalla ditta Corbelli di Milano.
Queste strepitose realizzazioni si erano disperse un po’ ovunque. Il ritrovamento casuale dei costumi di Iva Pacetti mise in moto una “caccia a Turandot” senza precedenti. A innescarla non poteva esserci voce più autorevole del Museo del Tessuto di Prato (altra “preziosità” di archeologia industriale recuperata da un vecchio stabilimento cittadino). Il tutto si concentra ora nella mostra “Turandot e l’Oriente fantastico di Puccini, Chini e Caramba” slittata dallo scorso anno a causa della pandemia, inaugurata aperta fino al 21 novembre. È curata da Daniela degli Innocenti (Conservatrice del Museo del tessuto) e Monica Zavattaro (Curatrice SMA – Sistema Museo Ateneo).
Raccontarla è molto riduttivo come sempre quando si tratta di lussi, luccichii, favole orientali, abiti fantasmagorici, gioielli regali, forme trascendentali.
Per cominciare, nella Sala dei Tessuti Antichi, sono esposti 120 oggetti preziosi della collezione Chini, proveniente dal Museo di Antropologia e Etnologia di Firenze. Tessuti, costumi, maschere teatrali, porcellane, strumenti musicali, manufatti di produzione cinese e tailandese (Chini soggiornò nel Siam per tre anni).
Al piano superiore del Museo si entra nel vivo dell’opera pucciniana con i bozzetti di scena di Galileo Chini tra cui la celebre visione della scalinata della Città Proibita di Pechino. Nell’ultima sala, infine, i costumi: i sontuosi costumi originali di Caramba della prima rappresentazione di Turandot, creduti persi per sempre prima dell’apertura del baule di Iva Pacetti.
Tutto il materiale è stato sottoposto a un accuratissimo lavoro di restauro da parte del Museo e dal Consorzio pratese dal significativo nome di Tela di Penelope.
Si aggiungono 30 straordinari costumi provenienti dall’archivio della Sartoria Devalle di Torino. Lo splendido catalogo (italiano/inglese, 240 pagg. 160 illustrazioni, è di Silvana Editore.
Ma a vedere la mostra dal vivo è un’altra cosa…
Ingresso intero € 10, ridotto € 8.
www.museodeltessuto.it/mostra-turandot/