
Milano. Natalino Balasso e Jurij Ferrini in “Aspettando Godot” di Samuel Beckett in scena all’Elfo Puccini (foto Massimo Battista)
(di Paolo A. Paganini) “Aspettando Godot”: un classico dell’assurdo, con connotazioni allegoriche, via via criticamene studiate, analizzate, in una vasta saggistica, dalla filosofia alla sociologia, alla metafisica, vista soprattutto come metafora del vivere umano. Tragicomica storia di Estragone e Vladimiro. Angosciosamente annoiati, in un’anonima e deserta strada di campagna con un albero stecchito, aspettano, senza un perché, un misterioso personaggio, che non arriva mai, cioè Godot. Arriva invece Pozzo, crudele padrone di Lucky, rassegnato masochista, tirato per una corda, che balla o canta o parla a comando. I quattro si scambiano battute, tengono discorsi infarciti di tutto e di niente, tra inutili ricordi, illogiche riflessioni e lucidi deliri senza senso. Quando Pozzo e Lucky se ne vanno, arriva un messaggero ad annunciare che per quella sera Godot non arriverà. Ma domani senz’altro. Fine del primo tempo. Inizio del secondo. I due stanno ancora attendendo. Ma, anziché Godot, arrivano di nuovo Pozzo, cieco e piagnucoloso, e Lucky, muto e senza memoria. Se ne andranno di nuovo e il messaggero del giorno precedente annuncia che anche quella sera Godot non arriverà, ma l’indomani certamente. Ancora soli, Estragone e Vladimiro, per ammazzare il tempo, cercano d’impiccarsi, ci ripensano e restano lì, come sempre, perché morire o vivere, andarsene o restare è lo stesso.
Samuel Beckett, uno dei padri del teatro dell’assurdo, scrisse “Godot” nel 1953, ispirato probabilmente dai grandi comici americani, da Chaplin a Buster Keaton, dai fratelli Marx a Stanlio e Ollio. Se ne sono sentite le influenze, più o meno palesi, in tanti passati allestimenti, da quello comicamente assurdo e vagamente cabarettistico dell’incredibile quartetto Gaber, Jannacci, Rossi, Andreasi nel 1990, a quello di Mario Scaccia (1997), e poi ancora dall’allestimento con Giulio Bosetti (1998) a quello di Pasqual al Piccolo (1999) e a quello di Luca De Flippo (2002).
Ora, all’Elfo Puccini, l’assunto comico è stato preso come assoluta certezza drammaturgica e, nei due tempi (uno di 1 ora e dieci e l’altro di 50 minuti) è stata messa in scena una scatenata performance di gag del più classico ed antico varietà, con tanto di spalla e comico in alternanza di ruoli, in uno scatenamento di risate, peraltro sostenute da un testo che sembra in realtà fatto apposta per diventare qualcosa di poco serio. Ma l’angoscia beckettiana, la disperata impotenza di una parola privata di significato, l’angoscia insomma dell’incomunicabilità, anzi l’angoscia di cercare di comunicare l’incomunicabilità, sono scomparse da questa deserta landa di disperati senza disperazione. D’altra parte, lo stesso Beckett scrisse una volta: “Non ho niente da dire ma posso soltanto dire fino a che punto non ho niente da dire…” Più che le parole, dunque, che dicono e non dicono, che ora affermano e subito dopo negano, contano i gesti, a fare da contorno a un’unica, immensa, imperscrutabile protagonista: l’Attesa. Il dramma dell’Attesa, grande, immane, tragica metafora dell’alienazione umana, di un’umanità, sfinita e disfatta, che attende e spera, che spera e attende senza sapere perché.
E il pubblico ancora una volta ne è conquistato, soggiogato, attento ma soprattutto gaudiosamente divertito, ma mai imbarazzato, mai a disagio. Il destino dell’uomo nel deserto della vita non interessa ormai più a nessuno.
Natalino Balasso e Jurij Ferrini (anche regia), come Estragone e Vladimiro, sono una perfetta ed affiatata coppia comica, servita involontariamente (?) da un testo che, volendolo rigirare su questo versante, sembra fatto apposta per far ridere. Angelo Tronca e Michele Schiano di Cola sono rispettivamente lo schiavista Pozzo (bene ma un po’ troppo squillante) e l’amebico Lucky. Successo strepitoso di risate ed applausi, con sei chiamate alla fine.
Si replica fino a domenica 17.