MILANO, martedì 31 ottobre ► (di Patrizia Pedrazzini) – Che cos’hanno in comune san Francesco Borgia che, sullo scalone di un nobile palazzo, si congeda dai familiari riccamente vestiti, e lo stanzone claustrofobico di un manicomio abitato da malati di mente in atteggiamenti grotteschi e caricaturali? O la bellissima, dolce e aristocratica Maria Gabriela, marchesa di Lazán, e l’apocalittico Colosso barbuto e devastato dalla furia che, a pugni chiusi, sovrasta un intero popolo intento a fuggire da un pericolo incombente e mortale?
Niente.
A parte la mano dell’artista: il grande spagnolo Francisco José de Goya y Lucientes, nato in Aragona nel 1746 e morto in Francia nel 1828.
Quattro dipinti, quelli citati, separati – due prima, due dopo – da un evento, che lasciò un segno profondo nel Paese e in un certo senso “deviò” il percorso umano e artistico del pittore (e incisore): la guerra d’indipendenza spagnola, che fra il 1808 e il 1814 contrappose gli iberici alle truppe napoleoniche. Un conflitto particolarmente sanguinoso, caratterizzato da esecuzioni di massa e dal ricorso per la prima volta alla tecnica della guerriglia (termine che venne coniato proprio in occasione di questo conflitto).
E in effetti è come se ci fossero due Goya, nella mostra “Goya. La ribellione della ragione”, allestita a Milano, nelle sale di Palazzo Reale, fino al prossimo 3 marzo. Una settantina di opere a testimoniare l’evoluzione, intima e professionale, del maestro. Che nasce come artista colto e accademico, legato ai temi tradizionalmente cari alla monarchia (quindi ritratti del re e dei nobili, e opere di argomento religioso, care alla committenza, che quanto meno “pagava”), per sviluppare poi uno sguardo “pietoso” verso soggetti più intimi e temi più sociali, fino alla satira e alla rappresentazione delle crudeltà della guerra. Non quella dei generali vittoriosi, quella del popolo che della barbarie è la sola vittima.
Come se la ragione avesse deciso di ribellarsi e di fare sentire la propria voce. Dando vita, in Goya, a un’arte sostenuta da un forte pensiero critico, ma insieme anche profondamente emotiva. Illuminismo e Romanticismo. Ragione e sentimento.
Dal dipinto che apre l’esposizione, “Autoritratto al cavalletto”, del 1785, ai ritratti convenzionali, alla sezione dedicata al popolo che si diverte (suddivisa nei tre momenti del gioco, della festa e dello spettacolo). E qui citeremo almeno “Il trascinamento del toro”, dove all’interno della popolare e cruenta corrida l’artista trova modo di inserire una sorta di “pietas” nei confronti delle vittime sacrificali: il toro e lo sfortunato cavallo.
E poi avanti con la produzione artistica, alla luce (sempre più fioca e incline al buio) di un atteggiamento sempre più critico e ribelle. I poveri, gli emarginati, i “matti”, le vittime della follia e del fanatismo religioso (“Processione di flagellanti”, “Scena di Inquisizione”). Fino alle due serie dei “Caprichos” (con il celeberrimo “Il sonno della ragione genera mostri”) e dei “Desastres de la guerra”: la violenza, le stragi, l’orrore.
Incisioni alle quali Goya affida il proprio pensiero più autentico e libero. E che l’esposizione milanese permette di ammirare, affiancate ognuna dall’originale matrice di rame. Matrici a loro volta appena restaurate (nel giugno di quest’anno) dalla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, a Madrid, nell’ambito di un progetto di recupero senza precedenti. Per la prima volta in mostra.
“Goya. La ribellione della ragione”, Milano, Palazzo Reale, fino al 3 marzo 2024