“Grado zero” del teatro, incapace di rappresentare lo spirito del tempo. Perso il ruolo della parola. E addio al dissenso

(di Andrea Bisicchia) Negli anni Sessanta, Roland Barthes denunziò il “grado zero” della scrittura, riferendosi alla narrativa. Oggi si potrebbe parlare di “grado zero” della scrittura teatrale, non solo perché il linguaggio si è usurato e sa di pane raffermo, ma perché non contiene una visione del futuro. Ne risente, ovviamente, la lingua scenica che sta al di là del testo scritto, perché possiede un ritmo interiore, una sua libertà, che non vuol dire arbitrio, e un suo modo di raccontare.
Sia ben chiaro, non crediamo alla staticità della lingua, bensì a una lingua sempre in rivolta, con la consapevolezza che, dentro ogni rivolta, debba esserci un pensiero che va drammatizzato, non certo in maniera banale.
La verità è che ci troviamo, dinanzi agli occhi, un teatro che mostra una drammatica assenza di ricambi, benché si noti, in chi fa teatro, una certa impazienza che, se non governata, genererà mostri.
I Cartelloni, o meglio le Cartoline, abbondano di spettacoli retorici, con un rigurardo particolare al tema della solidarietà, se non della finta morale, quella ben descritta da Eduardo in “Io, l’erede” (1942), la cui scrittura, però, era più legata al talento che non al falso moralismo.
Allora, in che cosa consisterebbe il “grado zero”?
Nell’essersi, il teatro, spogliato di tutto, nel non avere, parafrasando ancora Eduardo, un abito nuovo, ovvero la voglia del dissenso, di una controcultura capace di portare, al centro della scena, la parola.
Il teatro sta vivendo i tempi supplementari, a causa di una lingua sempre più opaca, incapace di riflettere la propria contemporaneità; è come se la scrittura avesse rinunziato alla creatività intellettuale, concedendosi all’effimero, all’ornamento, all’assenza di valori, ossia non è più assiologica.
Si può obiettare che la colpa non sia sua e nemmeno dei registi e degli attori, essendo le situazioni sociali a determinarla, che, in questo momento storico, pur carico di eventi drammatici, non sono stati determinanti per la rigenerazione, anche per il degrado della scrittura stessa, impotente e contraddittoria, se non convenzionale, che ha perso, insomma, la sua natura relazionale e il potere di nutrire chi l’ascolta.
Durante il secolo scorso (non è nostalgia), abbiamo visto degli spettacoli memorabili che ci hanno nutrito, perché sono stati capaci di coniugare la poesia della scena con quella del testo, di contaminare pensiero e azione. Erano gli anni in cui il palcoscenico vibrava perché capace di mettere in relazione la verità con la musicalità, tipica dei grandi registi.
Il teatro del terzo millennio ha deciso di isolare la parola, alimentando la retorica e concentrandosi sul “valore d’uso” che appartiene all’artigianato che, però, produce una sottoscrittura, alquanto artificiosa, priva di inventiva, abbastanza prefabbricata, con un eccesso di tecnologia, che ha, magari, i suoi momenti di splendore, ma anche le sue opacità che creano pesantezza, che desertificano la parola, rendendola priva di pensiero, che non è affatto un accessorio, che la mettono in relazione formale con apparati luminosi e con immagini, creando semplicemente un meccanismo parassitario.
Si tende ad abbellire tutto ciò che sta sul palcoscenico, ovvero a cercare dei surrogati della bellezza, attraverso la mistica della tecnologia, a cui si chiede, non di dare un senso all’esistenza, ma di favorire la ricerca del nuovo, con l’uso del virtuale.
Il teatro del terzo millennio deve chiedersi quale funzione possa ancora occupare la parola scritta, ma anche quella detta, e a chi dare la preferenza, visto che, oggi, prevale la dimensione parlata, ma, soprattutto, dovrà mettere le barriere all’invasione del Nulla.