Händel? Ormai è perduto, sentenziò il medico. Invece guarì, le tenebre si dissolsero. E nacque il prodigioso “Messiah”

collage 2 toniMILANO, lunedì 30 marzo  ● 
(di Giorgio Ferrari) Resurrezione e redenzione. Per Georg Friedrich Händel quell’oratorio composto a tempo di record tra il 22 agosto e il 12 settembre 1741 e destinato alle celebrazioni della Settimana santa – l’unico del maestro sassone il cui libretto si avvaleva esclusivamente di testi biblici e forse il suo componimento più celebrato insieme alla Wassermusik – lasciava trasparire un debito autobiografico che racchiudeva una vicenda pressoché miracolosa.
Quattro anni prima nella casa di Brook Street a due passi da Grosvenor Square dove Händel devolveva con tirannia spietata quel suo carattere collerico su cantanti, coristi, suonatori di cembalo, violisti e qualunque malcapitato si avvicendasse nei suoi appartamenti il maestro si accasciò all’improvviso con un tonfo sordo. Un colpo apoplettico, si diagnosticò, seguito da un “paraletick disorder”, come riportò il London Evening. Come dire: il maestro sarebbe sopravvissuto, la sua musica purtroppo no. A cinquantadue anni, il più celebrato dei musicisti della Corte di San Giacomo non era che una larva, il lato destro del corpo paralizzato, le dita impossibilitate ad eseguire una sola nota, la voce irrochita e flebile che farfugliava stringhe di parole inudibili dalla bocca che pendeva sbieca.
«Il musicista è perduto», concluse il dottor Jenkins, «e con esso la sua musica meravigliosa e ineguagliabile».  Ma non avevano fatto i conti con il fuoco segreto che Händel serbava nel profondo del suo essere. Figura dai tratti possenti e dal fisico sanguigno, il figlio del cerusico del duca di Sassonia-Weissenfels si ricoverò alle terme di Aquisgrana imponendosi fra lo sgomento dei medici anche nove ore al giorno di bagni caldi. La sua fu una guarigione che aveva del miracoloso. Le membra anchilosate risposero, il corpo riprendeva vigore, le mani cercarono una tastiera d’organo, le note ripresero a fluire fra le dita con l’aerea leggerezza della luce che trapela dai rosoni delle chiese gotiche, il suo genio si librava di nuovo alto. «Ho fatto ritorno dall’Ade», proclamò. Non sapeva ancora che la morte della regina e la guerra con la Spagna avrebbero chiuso i teatri, zittito i cantanti, mandato in fallimento gl’impresari e orde di creditori si sarebbero accalcate alla porta di Brook Street. La città gli voltò le spalle.
«Perché – si domandò – Dio mi ha fatto risorgere dalla malattia se poi gli uomini mi affossano?». Per quasi quattro anni Händel si assopì nel buio doloroso della depressione, una sfiducia sconfinata che si accompagnava all’inaridirsi di ogni ispirazione. E quando l’amico e librettista Charles Jennens – che per lui aveva già scritto Saul, Israele in Egitto e L’allegro, il pensieroso e il moderato – gli recapitò il testo di un oratorio che volle chiamare Messiah, sulle prime Händel s’infuriò: gli oratori non incontravano più il gusto del pubblico, lui stesso era sordo a ogni idea musicale. Ma quella esortazione messa lì all’inizio, quel “Comfort ye” (consolati!), quella ghirlanda di stigmi profetici che esalavano come mirra odorosa dal testo biblico, quell’”And He shall purify” (Ed egli purificherà), quel “Rejoice” (Rallegrati!) sembravano parlare direttamente a lui. Le tenebre dell’animo si dissolsero, il gigante sassone fu travolto. L’emozione, la resurrezione, il ritrovato vigore. Forse nacque così quell’”Alleluja” che rimane una delle pagine più celebrate della musica barocca. In esilio a Dublino, Händel lavorò ventidue soli giorni al Messiah, si dice versando lacrime di gioia sull’autografo. Ventidue giorni di rabbiosa creatività, di esaltata ispirazione, di immensa gratitudine. E di redenzione.
L’orchestra Silete Venti! (il nome proviene dall’omonimo mottetto di Händel) diretta da Simone Toni ha avuto il compito non facilissimo di celebrare domenica sera il capolavoro haendeliano con un’orchestra di sicuro livello nella Basilica di San Marco a Milano, primo atto pubblico di “Milano Città dei Lumi” sotto l’egida di don Luigi Garbini. Una lettura vigorosa, quasi concitata, dalla quale trapela come un debito vistoso nei confronti di Vivaldi, al punto che certe arie, certi cori, certo concertare facinoroso mostravano caldi colori veneziani più che l’aerea passione di Händel. Merito – e responsabilità, anche – del maestro Toni, il cui gesto stesso non sembra mai invitare all’understatement, bensì a una gioiosa incandescenza, come se il “cimento” dell’orchestra (prendetelo come un consapevole lapsus vivaldiano…) consista principalmente in una sanguigna battaglia contro il silenzio. Nell’insieme, una calorosa celebrazione haendeliana, se pure con qualche misteriosa omologazione di tempi verso l’alto, come se il concitato e l’impeto dovessero prevalere. Meritorio l’ensemble vocale, dal coro ai solisti Emanuela Galli e Silvia Vajente, da Mirko Guadagnini a Marco Bussi e Salvo Vitale, sui quali svetta forse il giovane controtenore lodigiano Raffaele Pe.
Inevitabile, come ad ogni rappresentazione del Messiah che si rispetti, l’attonito istante silenzio alla conclusione dell’”Alleluja” e l’applauso liberatorio che lo segue.
Del resto lo stesso re Giorgio II balzò in piedi sconvolto la prima volta che lo udì.