(di Andrea Bisicchia) Il periodo estivo è quello che, più di altri, ti aiuta a riscoprire qualche classico e a rileggerlo con una maturità maggiore rispetto a quella della prima lettura e, nello stesso tempo, ti permette di confrontarti, non solo col classico che hai scelto, in questo caso con “Morte della tragedia” di George Steiner, edito da Garzanti, ma anche con te stesso, dato che i temi e gli autori trattati ti appaiono in una nuova luce, avendo avuto modo di confrontarli con le nuove esperienze che hai accumulato nel tempo, tra la prima e la seconda lettura, da considerare, quest’ultima, come metodo critico.
Perché Steiner ritiene morta la tragedia dopo Eschilo, Shakespeare, Racine?
Perché il tragico esige la presenza di quelle forze irrazionali che l’Illuminismo aveva esautorato. Nella tragedia, tutto è circoscritto, tutto appartiene al destino della necessità, in essa la punizione è più grande della colpa, essendo la sorte segnata da tempo. A generarla era stata sempre la violenza, specie quando si accordava col sacro, o veniva a patti col mito che si era sedimentato durante millenni di storia. I miti moderni non possono vantare una simile sedimentazione, benché alcuni siano prosperati e prosperino nella violenza, adombrati da un concetto di sacro che nulla ha a che fare col divino e che, per questo, non permettono la rinascita della tragedia, al massimo gli autori possono saccheggiare le tombe del passato (O’Neill, Sartre, Anouilh), oppure possono rasentare la tragedia parziale, quella cristiana (Claudel, Eliot, Testori),dato che la morte dell’eroe cristiano è solo causa di dolore, non avendo nulla a che fare col mito e col rito della tragedia antica.
Durante il secondo millennio, le riscritture dei miti e dei personaggi che ne erano stati protagonisti, abbondano in maniera inverosimile, oltre a quelli citati, ricordo Gide, Giradoux, Cocteau, solo che, secondo Steiner, “il drammaturgo contemporaneo cerca di valorizzare le vecchie bottiglie rubate, aggiungendovi vino nuovo, spremuto in parte da Freud e in parte da Frazer”. Di una cosa, però, egli è certo: che non si può accendere la cenere fredda per rianimare il linguaggio, dato che le parole dei nuovi tragediografi appaiono stanche e logore dinanzi a una lingua che non ha mai sofferto tanto avvilimento, avendo assimilato, a sazietà, vocaboli contenenti gli orrori, le violenze del proprio tempo, incapaci, nello stesso tempo, di organizzarsi in un genere drammatico vero e proprio. Per Steiner, solo Ibsen ebbe il merito di fare ricominciare da capo la storia del dramma, dopo Shakespeare e Racine, tanto che il teatro moderno lo si può fare risalire a “Casa di bambola” e a “Le colonne della società”, con i quali seppe “creare una nuova mitologia e le convenzioni teatrali per esprimerla”.
Accanto a Ibsen, metterei anche Strindberg e Cecov, avendo, entrambi, capito che gli assalti alla ragione non vengono più dall’esterno, bensì dall’interno, proprio come accadeva nella tragedia greca. I nuovi eroi non subiscono le forze dell’irrazionale, non lottano contro il destino, ma contro i fantasmi della psiche, contro le malattie dell’anima. Come gli eroi antichi credono ancora negli ideali, dinanzi ai quali, però, soccombono. Se proprio dobbiamo immaginare una tragedia moderna, basterebbe ricordare l’urlo di Madre Coraggio dinanzi al cadavere del figlio che fa pensare all’urlo di Cassandra quando Agamennone viene accompagnato in casa dalla moglie per essere trucidato.
George Steiner, “La morte della tragedia” – Garzanti Editore, 2005 – € 14
Hanno ammazzato la tragedia. Steiner indaga. Chi è stato? L’Illuminismo. E oggi rimangono i fantasmi della psiche
24 Agosto 2015 by