(di Marisa Marzelli) Con il quarto capitolo Il canto della rivolta – Parte II si conclude la saga di Hunger Games, il più complesso tra gli attuali successi per giovani adulti (leggi per ragazzi) tratti da best seller letterari fantasy che descrivono un mondo distopico. Tra i suoi meriti, al cinema Hunger Games ha lanciato la stella Jennifer Lawrence. Dai tre libri di Suzanne Collins (in italiano pubblica Mondadori) sono stati ricavati quattro film perché, come spesso avviene, l’ultimo capitolo è diviso in due parti per moltiplicare le attese dei fan e i profitti. Sinora, il franchise Hunger Games ha incassato 2 miliardi e 300 milioni di dollari.
Gli appassionati conoscono e ricordano ogni dettaglio della complicata vicenda, anche se il primo Hunger Games risale al 2012, per la regia di Gary Ross, seguito da La ragazza di fuoco (2013) e la prima parte de Il canto della rivolta (2014); entrambi diretti, come quest’ultimo, da Francis Lawrence. Il film d’esordio era riuscito a costruire un universo barocco e composito, dove in uno stato dittatoriale e decadente che adombra gli Stati Uniti i sudditi dei vari distretti erano obbligati a fornire come “tributi” degli adolescenti gettati in un reality show mortale e la televisione era usata come spietata arma di propaganda politica. Ma l’illustrazione di tutto un mondo chiassoso e grottesco con il passare dei film si è andato scolorando a favore di due soli filoni: l’azione, con la protagonista Katniss, la Ragazza di fuoco, sempre più costretta ad essere emblema dei rivoltosi – forse non a caso Jennifer Lawrence ha fatto sapere che la sua eroina preferita è Giovanna d’Arco – e la storia sentimentale di Katniss incerta tra due amori, il compagno di Hunger Games Peeta che tenterà di ucciderla dopo aver subito il lavaggio del cervello (Josh Hutcherson ), e il migliore amico d’infanzia (Liam Hemsworth). Peccato che quest’ultimo, nel frattempo, sia diventato più famoso dell’altro più incolore giovane divo e forse il personaggio femminile, almeno in termini di resa cinematografica, alla fine sbaglia scelta.
Nel Canto della rivolta – Parte II si tirano definitivamente le fila del racconto, Katniss e i suoi alleati danno l’assalto alla roccaforte del presidente Snow (Donald Sutherland, sornione e gigioneggiante) dovendo combattere e superare tranelli bellici di ogni tipo – spettacolari ma piuttosto ripetitivi – finché, dopo la vittoria l’eroina riluttante si renderà colto che anche la leader degli insorti (Julianne Moore) è una politicante non migliore di Snow, pronta ad ogni intrigo e infamia per il potere. Alla fine, il vero vincitore occulto sembra essere lo stratega dei ribelli. E le inquadrature insistite di un meditabondo Philip Seymour Hoffman non sono solo un omaggio all’attore scomparso.
Il tutto è raccontato a passo di carica, senza troppa cura per le spiegazioni psicologiche, frettolosamente archiviate. Il secondo Canto della rivolta così non fa che replicare i cliché di Maze-Runner e Divergent, le altre due serie giovanili action-fantasy attualmente in corso. Conclusione anni dopo, in un ambiente bucolico, con Katniss che ha sposato l’amato Peeta e ha due bambini. Chiusura dolce-amara dopo tanto combattere, in calando narrativo. Katniss un po’ come Frodo, tormentato piccolo eroe de Il Signore degli Anelli, alla fine rientrato nell’ombra. Ma questo è il destino dei racconti di formazione: prima le terribili prove da superare per entrare nel mondo adulto, poi, come premio, una confortante normalità. Ed è forse questo rassicurante finale (che fa parte della nostra cultura) a perpetuare la fiaba che la società si racconta.
“Hunger Games”, fine (in calando) della saga. E, dopo tanto combattere, arriva il premio di una confortante normalità
19 Novembre 2015 by