(di Paolo Calcagno) Il regista Alessandro Rossetto e gli sceneggiatori Caterina Serra e Maurizio Braucci conoscono l’uso sapiente degli aggettivi, sulla pagina come nelle immagini. All’abuso enfatizzante preferiscono l’eliminazione, o l’uso contenuto. E non per appiattirsi su velleitarie pretese che ambiscano alla ricerca di presuntuosi rigori, quanto per la scelta di uno stile narrativo che non vuole perdere le distanze dagli umori, dai sentimenti, dall’interiorità descrittiva (dei contesti e dei personaggi), come si conviene a chi è consapevole di avere qualcosa da raccontare. E da mostrare. Certo, la formazione antropologica e le precedenti esperienze di documentari dei citati autori soccorrono e favoriscono lo stile inseguito in questa prima opera di fiction del quarantenne regista padovano. Ma, oltre le alchimie tecniche e le formule narrative, occorre il talento (un gran talento) per toccare i vertici sublimi di “Piccola Patria”, a mio avviso, miglior film italiano (assieme a “Per Grazia di Dio”, di Edoardo Winspeare) dell’anno, se si esclude l’eccellenza de “La Grande Bellezza”, di Paolo Sorrentino.
Nel piccolo centro del Nord-Est veneto, soffocato dal caldo torrido estivo, che brucia ma non riscalda, che abbaglia senza illuminare, siamo sull’orlo dell’abisso. Tutto, o quasi, è perso, il benessere, il mito della vocazione laboriosa, il senso della comunità, il rispetto di se stessi (figuriamoci degli altri). Rabbia, meschinità, degrado morale, viscerale inclinazione a colpevolizzare l’esterno (sia lo stato, sia il “foresto”), tracciano i confini del disagio e della miseria umana di questa “piccola patria dell’anima” sull’orlo di una irrimediabile crisi di valori, dannata senza speranza.
Due giovani cameriere in un hotel con piscina, Luisa e Renata, sono sorde a tutto, tranne che all’impulso di scappare a ogni costo da quell’inferno. Per vendicare una violenza subita mettono in scena un ricatto, utilizzando un filmino canaglia, con esplicite sequenze di sesso che spazzano via ogni stinta inibizione. Luisa si serve del suo fidanzato albanese, Bilal, ma la sua spregiudicata strumentalizzazione sarà per lei una trappola d’amore, irrimediabile, e forse salvifica. Ci sono le feste di paese, i campi sterminati, i capannoni deserti, i raduni dei secessionisti, perfino il comizio del 2012 di Giancarlo Busato e un’anticipazione del “tanko” fatto in casa, che configurano il film come profetico rispetto ai recenti arresti dei 24 separatisti veneti.
C’è il dialetto, ovviamente, che tutto lega saldamente, il furore razzista dei più anziani e la voglia di fuga dei giovani. C’è l’odio che tracima oltre ogni argine del buon senso, c’è la rozzezza del tran-tran familiare, provato dalla crisi, sfinito dal cupo abbandono a un malinteso senso di sopravvivenza, ammalato di un’ossessiva protezione dell’apparenza. Ci sono, infine, le maldestre esercitazioni con pistola di improvvisati gruppuscoli. E c’è il silenzio, delle voci e dei corpi. Infine, c’è il thriller strisciante. Tutto questo viene ripreso con cura da Rossetto che ce lo mostra intimamente, senza pregiudizi, catturandoci progressivamente con il suo racconto del rischio e del pericolo, non così lontano dalla nostra realtà. Un racconto, cui danno forza e fiato tutti gli interpreti, a partire dalle bravissime protagoniste Maria Roveran e Roberta Da Soller. Un racconto che scruta l’emozione dei particolari per disegnare scenari complessi, dei luoghi e dell’anima, che ci sorprende e ci fa crescere, come era capitato, un tempo, con i primi film dei Fratelli Coen.
“Piccola Patria”, regia di Alessandro Rossetto, con Maria Roveran, Roberta Da Soller, Vladimir Doda, Lucia Mascino, Diego Ribon, Giulio Brogi. Italia, 2013.
I confini sull’orlo del precipizio della nostra “Piccola Patria” dell’anima tra disagio e voglia di scappare
11 Aprile 2014 by