I grandi temi e l’umanità di Papa Francesco messi in luce da Wim Wenders • E i fantasmi di Delbono investigatore privato

(di Marisa Marzelli) Nella filmografia di Wim Wenders, accanto ai lungometraggi di fiction che l’hanno reso famoso come esponente di punta del Nuovo Cinema Tedesco nato negli anni ’60, si sono affiancati documentari d’autore. Pensiamo al successo del Buena Vista Social Club, ai lavori su Pina Bausch e il fotografo brasiliano Sebastião Salgado.
Stavolta Wenders alza ancora l’asticella e dedica un documentario a papa Bergoglio. Non un classico biopic ma un film su e con il pontefice venuto dalla fine del mondo.
Se il risultato, nell’insieme, non va oltre un impegno corretto e molto “istituzionale”, è interessante – in termini di comunicazione mediatica – l’operazione in sé. L’iniziativa non parte dal regista, che fu contattato da monsignor Dario Viganò (dal 2015 al marzo scorso prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede) per realizzare il filmato. Il Vaticano metteva a disposizione del regista tedesco i suoi archivi, libertà nell’elaborazione del progetto e la disponibilità di papa Bergoglio ad essere intervistato e filmato. Una di quelle offerte difficili da rifiutare. Due anni di lavoro, quattro incontri a tu per tu con Bergoglio e il debutto, fuori concorso, all’ultimo Festival di Cannes. Papa Francesco – Un uomo di parola era destinato in primis al mercato americano (è uscito negli Stati Uniti il 18 maggio) e in seguito alla distribuzione nel mondo intero. In Italia l’uscita avviene con ritardo, forse per non coincidere con la bufera scatenatasi di recente sulla pedofilia nella chiesa cattolica.
Tornando alla sua costruzione – con il supporto del Centro televisivo vaticano – il film non sfugge alla logica dei lavori di realizzatori “embedded”, cioè che operano in sinergia con gruppi di cui devono riferire (il termine è usato soprattutto per i reportage di guerra, con registi al seguito delle truppe di una parte in causa). Qui Wenders è agevolato dalla capacità di Bergoglio di essere un grande comunicatore. A un lungo ma frazionato dialogo faccia a faccia con il papa, che a volte sembra guardare in macchina e rivolgersi direttamente allo spettatore, il regista (anche voce narrante fuori campo) alterna spezzoni estratti dagli archivi vaticani sui tanti viaggi papali nel mondo e gli incontri in consessi internazionali (dalle Nazioni Unite al Congresso americano). Non mancano i bagni di folla con i più umili, dalle favelas ai toccanti incontri con carcerati, alle folle riunite in Piazza San Pietro.
In alternanza con queste immagini d’archivio, Wenders propone anche una piccola e sommessa fiction in bianco e nero su San Francesco, il modello – già nel nome scelto per il pontificato – del papa argentino. Le immagini del docu-film partono da Assisi e vi si riferiscono più volte, come a voler sottolineare la predilezione di Bergoglio per una Chiesa che si fa povera tra i poveri e i derelitti.
Nella conversazione il papa e il regista parlano dei grandi temi al centro delle preoccupazioni del mondo d’oggi, disuguaglianze sociali ed economiche, ecologia e sconvolgimenti climatici, guerre, materialismo, ruolo della famiglia e, naturalmente, grandi migrazioni. Bergoglio non si sottrae ad alcuna domanda, nemmeno a quelle dei giornalisti che lo accompagnano nei viaggi ufficiali. Sempre con semplicità e dalla parte dei deboli, a tratti persino con qualche battuta umoristica.
La tela di fondo risulta un ampio giro d’orizzonte sulle tematiche a cui dà voce questo papa giunto al sesto anno di pontificato. Quel che manca al film di Wenders (ma come fargliene una colpa, trattandosi di un’opera su committenza?) è, oltre a qualche affondo più critico su argomenti specifici, un fil rouge più netto e individuabile che leghi tutto il pensiero di Bergoglio.
C’è in effetti, il tentativo di un approfondimento sul concetto di tempo e sull’uso che ne faccia la nostra società, ma è labile e a volte si perde. Apprezzabile, invece, il fatto che Papa Francesco – un uomo di parola non si rivolga solo a un pubblico cattolico o cristiano ma a tutti. Mettendo in luce l’umanità del pontefice romano più che le sue convinzioni teologiche.

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PIPPO DELBONO INDAGA SULLA SCOMPARSA D’UN FAMOSO ATTORE. E S’INGARBUGLIA TRA RICORDI, INCUBI E FANTASMI

(di Marisa Marzelli) Ce l’ha fatta a trovare una distribuzione nelle sale, dopo il passaggio a vari festival più o meno famosi, Oltre la nebbia. Il mistero di Rainer Merz, secondo lungometraggio del regista astigiano Giuseppe Varlotta. Lo si può considerare un giallo e racconta della misteriosa sparizione di un attore famoso durante le riprese di un film; ma l’autore preferisce la definizione “mistery thriller dal sapore esoterico”. Molto esoterico per la verità, ed è questo aspetto a generare più di una domanda sul significato finale dell’opera. Lunga gestazione, coproduzione italo-svizzera, diverse insolite e suggestive location sono state trovate nel Canton Ticino.
Sin dalle prime scene un investigatore privato indaga. A interpretarlo è il regista e attore Pippo Delbono, il cui personaggio vuole essere un po’ la summa dei tanti “occhi privati” nati dall’immaginario letterario e cinematografico. Stropicciato dalla vita, tormentato dai fantasmi del passato, alla ricerca di verità sfuggenti. Al suo fianco, un cast internazionale con Corinne Cléry (indimenticata interprete de L’histoire d’O), Cosimo Cinieri, Vincent Nemeth, Frédéric Moulin, Luca Lionello e la ticinese Hanaì Traversi. La fotografia è di Fabio Olmi, figlio dell’autore de L’albero degli zoccoli; nella colonna sonora anche una canzone originale di Giorgio Conte. Nato da un’idea di Giovanni Casella Piazza, che ne è anche produttore, il film è stato realizzato con il contributo, tra altri enti italiani e svizzeri, della Ticino Film Commission e della Film Commissione Torino Piemonte.
La narrazione è divisa in capitoli scanditi dai giorni della Settimana Santa. Il film è esplicitamente dedicato alla memoria di Mario Monicelli (Varlotta l’aveva diretto in un corto intitolato Nanà) e meno esplicitamente all’attore e cabarettista Felice Andreasi, di cui il protagonista porta il cognome.
Il plot è complicato: l’investigatore (Delbono) viene incaricato dalla costumista (Cléry) di indagare sulla scomparsa dell’attore Rainer Merz (Cinieri) sparito durante le riprese di un film storico sull’imperatore Federico II. Dal passato del detective cominciano ad affiorare ricordi e incubi legati al proprio vissuto e in particolare alla morte di una bambina nei pressi di una cascata. Da qui in poi il racconto si aggroviglia tra presente e passato, onirico e allucinatorio; l’esoterismo esplode e si sfiora l’horror. Il finale cita Rosemary’s Baby di Polanski.
Al di là della trama (sceneggiatura dello stesso regista, insieme a Paolo Gonella e Giovanni Casella Piazza), che mette troppa carne al fuoco, s’ingarbuglia e fatica poi a districarsi, colpisce l’elegante resa visiva. In particolare, Varlotta (di formazione architetto) ha un tocco felice negli esterni. Propone, ad esempio, a chi riconosce i luoghi, una Bellinzona, capitale del Canton Ticino e città di funzionari, sorprendentemente inedita. Persino strade e piazze, che il passante attraversa di solito senza guardarsi attorno, diventano luoghi quasi magici, che sembrano trasudare inquietudini e misteri. Per non parlare delle scene ambientate in Valle di Blenio (nord del Canton Ticino) attorno alla ex-fabbrica di cioccolato Cima Norma.