MILANO, mercoledì 19 giugno ► (di Carla Maria Casanova) “I Masnadieri”, andati in scena ieri sera alla Scala con contrasti, non sono, diciamolo, tra le opere più pregiate del buon Peppino. Opera giovanile, datata luglio 1847, tre mesi dopo “Macbeth”, che è del marzo dello stesso anno. Improponibile qualsiasi paragone tra le due opere (la prima è il capolavoro che sappiamo).
I Masnadieri si rifanno a una tragedia di Schiller, la cui storia è francamente demenziale. Il libretto di Andrea Maffei non aiuta. Alla base di tutto, i soliti messaggi intercettati e sostituiti. Qui, per opera del figlio cattivo (Francesco), che vanifica la riconciliazione tra padre (Massimiliano) e figlio buono (Carlo). Allora Carlo si unisce ai cattivi masnadieri mentre Francesco imprigiona il padre che credeva morto e che invece si è svegliato nella bara. Quando il pastore Moser fa capire a Francesco che ha molto peccato, e deve pentirsi, lui se ne fa un baffo. Intanto la cugina Amalia ama Carlo, ma le han detto che è morto. Si ritrovano e tutti contenti. Carlo estrae dalla tomba il padre ancora vivo, però rendendosi conto di aver fatto un sacco di brutte cose con i Masnadieri, medita di uccidere se stesso, il padre e la fidanzata, così la facciamo finita in senso letterale. Finisce invece che uccide solo la fidanzata, nessuno capisce perché. Doveva essere cattivo anche lui.
Questo raccapricciante pasticciaccio è stato portato in scena da David McVicar sulla stessa linea della storia, vale a dire una confusione tremenda. In primis, un siparietto bruttissimo (tre facce: due femminili e in mezzo una rossa maschera di diavolo) che nulla ha da spartire con l’opera. La scena fissa (Charles Edwars) e i costumi dei soldati napoleonici (Brigitte Reiffenstuel) sono teatralmente corretti, ma la regìa è tutta un correre, saltare, ballare, gesticolare. Peccato, perché di McVicar ricordiamo, alla Scala, dei meravigliosi Trojani. Purtroppo, non tutte le ciambelle, ecc. Alla fine, buu inequivocabili.
E buu (mi assicurano, ma io non li ho sentiti) anche per Michele Mariotti, quarantenne rampantissimo pluripremiato direttore, Premio Abbiati come miglior Direttore d’orchestra 2016. Molto attivo in zona sentimentale. Ultima moglie il soprano Olga Peretyatko, sposata raggiante in generoso gran decolleté. Ma adesso guai a nominarsi a vicenda. Mariotti a me è parso pieno di vigore e di entusiasmo, con cupi coloriti ben evidenziati e un ritmo acceso che si addice a questa partitura di giovanile baldanza.
Invece, per una volta, è risultato sopra le righe il coro, spesso coprente i cantanti. Dei quali cantanti si cita subito l’esordiente (alla Scala) soprano: Lisette Oropesa, nata a New Orleans da genitori cubani. Questa giovane signora (34 anni) pare fosse molto sovrappeso. Messasi a regime, persi 40 chili, ma splendidamente mantenuta la voce, è una interprete eccezionale, sovrana nella zona acuta e con passaggi raffinatissimi. Il pubblico ha ricambiato applaudendo spesso. Alla fine con una ovazione.
Salutato con lo stesso affetto Michele Pertusi, come sempre ottimo, qui nella pur breve parte. E molto bene anche per il tenore trevigiano Fabio Sartori, che ha bella voce, estesa e soprattutto canta bene, con l’accento giusto (fiati, dizione e tutto quanto). C’è solo l’handicap di quella stazza fisica. Magari la Oropesa può dargli utili consigli.
Qualche défaillance nel rendimento complessivo del baritono Massimo Cavalletti. Forse non gli si addice vocalmente la parte.
L’opera, si diceva, non è delle più travolgenti. Eppure, ci sono registrazioni con nomi fuoriclasse, tipo Caballé, Sutherland! E Gianni e Ruggero Raimondi, Bergonzi, Cappuccilli, Bruson, Ramey, Christoff…
Ma troppo spesso (l’opera) richiama il proverbiale, sia pur usurpato, zumpapa di Verdi. È troppo ovvia, nonostante le sue pagine sognanti (che ci sono), il grande quartetto che chiude il primo atto, la scena che apre il quarto atto (la follìa visionaria di Francesco), le arie. Perché rozzo Verdi non è mai stato, nemmeno agli inizi, nemmeno quando non vola altissimo. Certo che quando vola alto è un’altra storia.
“I Masnadieri” sono dati in due atti, un intervallo. Durata 2 ore e 45 minuti. Repliche: 21, 24, 28 giugno, 1, 4, 7 luglio.
All’inizio dello spettacolo il sovrintendente Pereira, in proscenio, ha ricordato Franco Zeffirelli e chiesto il minuto di silenzio. Nel palco della sovrintendenza si è notato un insolito signore: Dominique Meyer, sovrintendente della Staatsoper di Vienna e candidato alla guida della Scala come successore di Pereira. Perché? Pereira non andava bene?