I misteriosi percorsi mentali di Beckett, ma Pasqual, con Lello Arena e Angela Pagano, tenta di chiarirli

Desktop4(di Paolo A. Paganini) Da un punto di vista esegetico, o filosofico. O da qualunque parte lo guardiate, “Finale di partita” di Beckett è uno dei testi più frequentati da critici, studiosi, appassionati, anche se, in realtà, si riduce a ben poca cosa, sotto il profilo formale, ma complesso come un rompicapo nella sostanza. Non c’è dubbio che, tra analogie e metaforici rimandi a mille luoghi tra comuni e letterari, questo testo, che in scena non va oltre l’ora e mezzo, è affascinante, enigmatico e misterico come una zona limbica del cervello. E, appunto, lo si può vedere o sentire come più vi piace.
E così è stato scritto che in “Finale di partita” (ma anche in “Aspettando Godot”) il dialogo è un vuoto conversare per ingannare il tempo, quasi diventando una parodia del dramma tradizionale. È stato scritto che coincide con la scomparsa del significato del linguaggio. A chi chiedeva all’autore irlandese ma di scrittura francese come spiegasse la contraddizione tra lo scrivere e le sua personale convinzione che il linguaggio non servisse a niente e non comunicasse nessuna idea, Beckett replicò sorridendo: “Que voulez vous, monsieur? C’est les mots; on n’a rien d’autre!” Non c’è nient’altro. È stato scritto che qui, come in tribunale, il giudice interroga l’imputato sapendo già quel che vuol sapere. È stato scritto che Beckett per tutta la vita ha scritto testi irrisolti, incompiuti e abbandonati, e sempre nel vano tentativo di arrivare a qualche conclusione.
È stato scritto che il problema è solo questo: non esiste una chiave di lettura. È solo una partita a scacchi, proprio come vuole il titolo: finale di partita, tentare di dare scacco matto al re (al povero cieco paralizzato, alla vita, ai rapporti quotidiani, agli affetti ecc), ben sapendo che non ci sarà fine. Tutto finisce in stallo. E si ricomincia. È stato scritto che questa pièce indica soltanto il nulla, il vuoto cosmico o, se volete, la desertificazione dopo un’esplosione nucleare. Ma è stato anche scritto che indica il vuoto mentale, il nulla perché non si ha niente da dire o da pensare, o, se vogliamo, indica la confusione mentale, un po’ alla Joyce un po’ alla Robbe-Grillet (le nouveau roman), ch’è l’interpretazione che ci piace di più. E via di seguito di variazione in almanaccamenti. Anche se, in conclusione, aveva ragione Beckett, quando disse sbrigativamente che non c’era proprio niente da spiegare, “C’est les mots, monsieur!
Quindi non ci meraviglieremo, come non ci siamo mai meravigliato per altri allestimenti (da Santuccio a Walter Chiari), davanti a questo nuovo allestimento di Lluis Pasqual (non nuovo a Napoli, nel 2011 una memorabile “Casa di Bernarda Alba) ed ora con “Finale di partita”, condito in salsa napoletana al Teatro Nuovo, con Lello Arena (Hamm), Stefano Miglio (Clov), Angela Pagano (Nell), Gigi De Luca (Nagg). Altra cabalistica pensata beckettiana di trovare doppi sensi nei nomi, qui sempre di quattro lettere! Lo spettacolo ha sollevato, come sempre, le solite perplessità interpretative, sulle quali, come abbiamo succitato, non c’è nient’altro da aggiungere.
Da un punto di vista recitativo, nel consenso di una felice complicità da parte di tutti e quattro gli intepreti, ci è parso – per essere enigmatico nei suoi meandri di nonsensi – di essere troppo esteriorizzato, in eccessi espressivi, in un’insistita forzatura di drammatizzazione. E poi, nel limitato spazio del Teatro Nuovo, un po’ troppo gridato, tant’è che vien meno, nell’autoritarismo dittatoriale di Hamm, il sottile gioco delle assurdità, delle astuzie psicologiche, pur insite nel testo beckettiano. Ma siam sempre nel peccato veniale d’una comprensibile esuberanza da maschere napoletane (v. Nell e Nagg). Ah, Eduardo, sommesso, essenziale, quanto ci manchi. Successo finale senza riserve.