MILANO, venerdì 7 novembre
(di Patrizia Pedrazzini) “Nessuno lo sa, dove si nasconde il Padreterno. Neanche il Papa. Ma vuoi che, se non ha ascoltato il figlio, ascolti noi, poveri cani?”. C’è tutto Ermanno Olmi in “torneranno i prati”(scritto così, in minuscolo, come si conviene a una storia minima), il film sulla Grande Guerra dell’83enne regista bergamasco. Gli uomini umili e spaventati, il dolore e il silenzio, lo smarrimento e l’abbandono, l’innocenza e la paura. Il freddo, il buio. E, di contro, la bellezza struggente di una natura imperturbabile, splendida, algida cornice di un massacro insensato.
È una notte di luna piena e di nuvole nere, sull’Altopiano, una notte di novembre del 1917, con le montagne dai profili cupi e tanta, tanta neve. Candida, fresca, alta. Sembra brillare, nell’oscurità. Non una goccia di sangue cadrà a macchiarla. E c’è una trincea, con le sue povere cose, le gavette e le calze stese, e le povere vite dei poveri soldati che la occupano. Il nemico è lì vicino, dall’altra parte, ma non lo si vedrà mai: solo il bagliore dei razzi, il tuono dei mortai, il sibilo delle pallottole raccontano di lui. Tanto basta, a Olmi. Per dare vita a un film straziante e senza speranza, nel quale l’uomo sembra aver perso non solo il controllo del proprio destino, ma anche la consolazione di essere almeno ricordato.
Le figure e le situazioni sono quelle di sempre: l’ordine insensato di conquistare un rudere esposto al fuoco dei cecchini, il suicidio di un soldato che preferisce spararsi che farsi ammazzare, il capitano che si degrada perché non ce la fa più, il sergente che non si dà pace per non aver saputo proteggere i suoi uomini, il soldato che appallottola molliche di pane e le mette in fila, sul bordo della branda, per il topolino che passa a mangiarle, e quello che tutte le notti, durante la guardia, aspetta che la volpe passi, quasi a trovarlo, là sotto il larice davanti all’imbocco dell’avamposto. Ma non è solo questo.
Olmi va oltre gli stereotipi della filmografia sulla Prima Guerra Mondiale. E va oltre anche la polemica e la rabbia. Non ha nemmeno bisogno di mostrare l’assurda stupidità degli ordini criminali, i colonnelli e i generali tronfi e incapaci, gli errori e gli orrori di quella che Papa Benedetto XV già allora definì “l’inutile strage”. Gli bastano gli umili tratti fisici dei soldati, le loro facce anonime, sporche, contratte dal freddo, le loro mantelline grigioverdi che sventolano al vento gelido dei monti. “La posta. Solo quella aspettano, gli uomini”. La stessa posta (quattro miliardi di lettere, da e per il fronte, in anni nei quali metà della popolazione italiana censita era analfabeta) alla quale il regista ha attinto per fotografare un’Italia ormai lontana, disperata ma anche obbediente e rispettosa. “Col suo permesso, signor tenente…”.
Il risultato non è nemmeno un film, almeno non nella sua accezione più classica. È una sorta di grande fotografia lunga un’ora e venti minuti, “girata” a colori, ma spenta poi nei toni plumbei del nero, del grigio, del bianco, del blu, chiamata a fissare nel tempo, e a consegnare alla memoria, il disperato dolore di centinaia di migliaia di giovani vite consapevoli di andare a morire. “I morti, resteranno là, sotto la neve, per tutto l’inverno. Verranno poi a prenderli in primavera. Ma alcuni non li cerca più nessuno. Resteranno in questi boschi per sempre”. E quando la guerra sarà finita, “tutti torneranno da dove sono venuti, qui sarà cresciuta l’erba nuova, e di tutto quello che abbiamo patito, nessuno saprà più niente”. E allora, certo, torneranno i prati, sembra dire alla fine Olmi, mentre sullo schermo scorrono le immagini d’epoca della Vittoria, ma a ricoprire tanta sofferenza, a adagiarla fra le braccia della natura, a consegnarla definitivamente al passato.
Cent’anni dopo, mentre da più parti emergono appelli per la riabilitazione storica, e giuridica, di quel migliaio e più di soldati italiani fucilati per disobbedienza o “decimati” fra il 1915 e il ’18 (in Gran Bretagna un provvedimento analogo è già stato adottato nel 2006), a chi quel conflitto ha avuto la fortuna di non viverlo non rimane che il ricordo. Quanto meno il dovere di non dimenticare. Al di là delle celebrazioni ufficiali, il solo, autentico modo per rendere onore a quei poveri, ignari, disperati 620 mila morti.
«I morti, resteranno là, sotto la neve…». Ecco la Grande Guerra, straziante e disperata, di Ermanno Olmi
7 Novembre 2014 by