Il caso Watergate dalla parte dell’Fbi. Con un ottimo Liam Neeson nei panni di “Gola profonda”. Ma non c’è suspence

(di Patrizia Pedrazzini) “The Silent Man”, letteralmente “L’uomo silenzioso”, ovvero l’altra faccia di “All the President’s Men”, letteralmente “Tutti gli uomini del presidente”, il film con il quale nel 1976 Alan J. Pakula raccontò lo scandalo Watergate, che costò la Casa Bianca all’allora presidente Richard Nixon. Perché la Storia non è Storia se non se ne conoscono almeno le due principali facce (possono essere anche di più), e il cinema ultimamente sembra non disdegnare l’intrigante scelta di non fermarsi a una sola fonte, di non presentare un unico punto di vista. Come insegnano i recenti “Dunkirk” di Christopher Nolan e “L’ora più buia” di Joe Wright: ovvero l’Operazione Dynamo vissuta, nel primo dai soldati bloccati fra la spiaggia e il mare, nel secondo (anche se insieme ad altre e maggiori problematiche, a partire dalla scelta di entrare in guerra) da Winston Churchill nelle cupe stanze londinesi del potere.
Così con “The Silent Man” Peter Landesman, che del film è sia sceneggiatore che regista, racconta il Watergate non dal punto di vista dei due più famosi giornalisti americani (la storica coppia Bob Woodward-Carl Bernstein, allora magistralmente interpretati da Robert Redford e Dustin Hoffman), bensì da quello della fonte anonima più famosa della storia americana: “Gola profonda”, ovvero Mark Felt, il numero due dell’Fbi dopo il mitico capo John Edgar Hoover. Un uomo schivo, compassato, totalmente dedito al proprio lavoro, con un forte, al limite dell’inesorabile, senso della verità e della giustizia. Alle quali tutto sacrifica e in nome delle quali, mentre tutti intorno a lui tramano per minimizzare, occultare, insabbiare, decide di fare la sola cosa che la propria coscienza gli detta: prendere in mano il telefono e chiamare il “Washington Post”, indirizzando due intraprendenti giornalisti sulla strada della verità.
Un uomo tutto d’un pezzo ma anche, inevitabilmente, sofferto e sofferente, con una vita privata al limite del disastro (una moglie insoddisfatta e inquieta che, parecchi anni dopo, finirà suicida; una figlia che ha fatto perdere le proprie tracce andandosi a rifugiare in una comune hippie), cui dà corpo e volto un ottimo Liam Neeson (che vale da solo tutto il film). Elegante, tenebroso, risoluto, consapevole del proprio ruolo e della fedeltà giurata al proprio Paese. La faccia pulita di un’America che in quegli anni non era pulita per niente, e i cui rimandi all’attualità, a partire dalle lotte per il potere e dalla posizione di sfida della Casa Bianca nei confronti dei mezzi d’informazione, sono fin troppo rilevabili.
Non nuovo al giornalismo d’inchiesta e alla scelta di argomenti volutamente analizzati “dall’altra parte” (con “Parkland”, nel 2013, aveva raccontato le vicende seguite all’assassinio di John F. Kennedy; con “La regola del gioco”, di cui fu sceneggiatore, aveva affrontato nel 2014 l’inchiesta sulla corruzione della Cia nel traffico di droga in Nicaragua), Landesman centra qui sicuramente l’obiettivo di ricostruire, con impegno e giudiziosa  meticolosità, tutto l’onere e il senso di oppressione che abitano le stanze del potere americano. Forte in questo, oltre che della raffinata interpretazione di Neeson (e del suo ineccepibile physique du rôle), di un robusto gruppo di altri apprezzati interpreti (Tony Goldwyn, Josh Lucas, Michael C. Hall) nei ruoli chiave della storia.
Con una nota, tuttavia, fastidiosa: lo spazio, e il carattere, riservati alle vicende familiari di Felt: dalla problematica moglie Audrey (la come sempre inappuntabile, in un ruolo che le è consono, Diana Lane) all’inquieta figlia Joan (Maika Monroe) che, superate le follie giovanili, non esita a rientrare di lì a poco nei ranghi a fianco di mamma e papà. Circostanze, luoghi e situazioni che, oltre a integrarsi faticosamente con la storia “pubblica” dell’agente Felt, e procedendo invece quasi su un binario ad essa parallelo, finiscono anche per restituire, dell’America degli anni Settanta, un’immagine formale, a tratti pesante, stucchevole e nel complesso poco comprensibile.
Impedendo al film, con la loro compostezza e la pressoché totale assenza di suspence, di decollare per quello che in realtà sarebbe dovuto essere: un bel thriller.