(di Andrea Bisicchia) Ci si chiede, spesso, che tipo di esperienza sia quella del dolore e quale possa essere il suo rapporto con la sofferenza o la malattia. La risposta potrebbe riguardare la biologia, ma potrebbe coinvolgere altre scienze come la sociologia o l’antropologia. Il dolore lo si può declinare, sia in rapporto alle condizioni sociali, sia in rapporto ai tempi. Nel 1986 Salvatore Natoli pubblicò un volume intensissimo sull’analisi del dolore nell’età greca, in quella cristiana e nell’età della tecnica, il suo approccio fu di tipo filosofico, ricco di citazioni che riguardavano la tragedia greca e quella cristiana, con un singolare riferimento a Giobbe.
Anche David Le Breton, antropologo di fama internazionale, nel suo ultimo libro: “Esperienze del dolore fra distruzione e rinascita”, Cortina editore, cerca di dimostrare come il dolore, pur essendo una sensazione reale, possa ritenersi una alterazione somatica o della psiche.
L’individuo soffre per tanti motivi, ma volendo approfondire l’entità del dolore, sa quanto sia necessario conoscerne il senso. Le Breton rilegge la storia di Giobbe, facendo del personaggio biblico, non tanto il simbolo del dolore universale, quanto di chi cerca il senso del dolore, specie se convinto di non avere nessuna colpa. Giobbe subisce un processo divino, così come Josef K è sottoposto a un processo metafisico da parte di Kafka. Le Breton divide il suo lavoro in sette capitoli, distinguendo il dolore di sé, da quello traumatico, da quello che produce piacere. Essendo invisibile, il dolore genera una indicibile sofferenza, accompagnata da una forma di ribellione, visibile nei comportamenti e nella vita stessa di un individuo.
A penare non è solo il corpo, ma anche la mente, tanto che, come piccoli Giobbe, aspiriamo a conoscere il senso della pena. Per Giobbe il senso lo si doveva chiedere a Dio, il primo a cui ci rivolgiamo quando si è oppressi dalla sofferenza, a cui chiediamo perché ne siamo aggrediti, magari senza colpa. Forse perché il dolore è una percezione del male, che può superarsi rincorrendo all’estasi? O perché cerca il piacere attraverso la sofferenza, mettendo in pratica l’eros estremo o il rischio estremo? Una cosa è certa, così come esiste il male di vivere, di montaliana memoria, alla stessa maniera esiste il dolore di vivere che si manifesta attraverso minacce che riguardano la nostra persona, i nostri sentimenti. Sono i casi in cui il dolore si mostra necessario per farci sentire vivi, per farci rifiutare le manipolazioni, quelle che Borgna chiama “le ferite dell’anima”.
Se il corpo sente l’oppressione, deve pur trovare dei momenti in cui riesce a liberarsene, come accade, per esempio, nella Body Art attraverso la performance che pone il corpo al centro del suo linguaggio e lo utilizza come provocazione, oscenità, travestimento, tanto che chi lo guarda ne rimane coinvolto. Le Breton dedica un capitolo all’argomento, ma utilizzando il dolore come categoria antropologica, aiuta il lettore a conoscerne meglio i molteplici significati.
“Esperienze del dolore fra distruzione e rinascita”, di David Le Breton – Cortina Editore, 2014 – p264 – € 25.
Il dolore non è solo del corpo, è anche della mente. Ma che senso ha? Lo studio di David Le Breton sul dolore di vivere
14 Ottobre 2014 by