MILANO, giovedì 24 settembre ♦
(di Paolo A. Paganini) Tutto ciò che è fatale accadrà: non è valicabile la mente di Zeus. Lo diceva Eschilo. In altre parole, hai poco da menar il can per l’aia. Andare alla ricerca dei perché, del cosa, del senso, non serve a niente. È accaduto, e basta. Fa parte dei capricci del destino, della beffa della sorte, come si suol dire. E poi, si sa, il destino è cieco. A ciò, a questa sequela di luoghi comuni, a questa filosofia di proverbi a buon mercato, si possono aggiungere più seriosi trattati e saggi a non finire, tra la metafisica e la teologia, in una vera crestomazia di pillole di saggezza, con una marea di disperati ricercatori del vero e dei perché senza risposta, sugli accadimenti della vita, sulla nascita, sulla morte. Ci si può spingere fino all’angoscia esistenziale, chiedendosi come sia possibile che il destino dell’uomo sia così inutile e insignificante: perché nascere per poi morire?
Questa bella sequenza di ragionamenti, che vanno dal citato Eschilo a Leopardi, da Kirkegaard (“Nessuno al mondo è in grado di dirti perché esisti!”) a Pavese, può continuare all’infinito. Si rimarrà sempre al punto di partenza. Tutto ciò che è fatale accadrà. Amen. E all’uomo rimarrà per sempre la disperazione di non sapere perché sia accaduto un certo fatto, una certa disgrazia, una certa tragedia. Un passante doveva proprio passare su quel marciapiede quando gli cadde un vaso in testa? Un bambino doveva attraversare la strada proprio allora, quando venne investito? Non correre, non correre, bambino: l’inutile raccomandazione dei grandi.
Non correre, “non correre Amleto”, ammonisce invece Francesca Garolla, apponendo la frase a titolo dello spettacolo in scena nella modesta e ben frequentata sala di Conca del Naviglio, a due passi dalla Darsena, al Teatro i (proprio così, con la “i” alfabetica, ma anche qui, per coerenza, non chiedere perché).
In settanta minuti senza intervallo, Elena Ghiaurov (ch’è fin troppo brava, fino all’autocompiacimento), e Milutin Dapcevic, molto gridando e molto facendo, si chiedono forsennatamente perché “il 29 maggio 1993, un convoglio di aiuti umanitari diretto alle città di Vitez e Zavidovici, nell’ex Jugoslavia, sia stato assalito da una banda militare… Tre persone vengono uccise, mentre due riescono a fuggire scappando nei boschi…” (dal foglietto di sala).
“Una delle vittime era mio zio”, spiega la Garolla, che allora aveva dodici anni. E aggiunge il fatale perché. Perché si sono messi a correre? Bastava che non si fossero messi a correre e non sarebbe successo niente. Forse.
Su questo tragico accadimento si sviluppa lo spettacolo, che, come vuole il capriccioso destino, non ha né capo né coda, ma si fa guardare, e ascoltare, con un certo interesse. Insisto sul verbo ascoltare. Gli interpreti sono due, encomiabili per generosità e onesto convincimento di dire delle verità eterne. Ma il vero protagonista è il geniale facitore di suoni, Fabio Cinicola. Con il regista Renzo Martinelli è riuscito a creare un radiodramma. Se chiudi gli occhi, puoi benissimo immaginare di essere in uno studio di registrazione radiofonica, dove tutto è microfonizzato, tutto amalgamizzato, suoni voci rumori effetti rimbombi in un mix di straordinaria suggestione, con sferzate di sibili ed esplosioni a sorpresa, o con sottolineature in fedele tempismo con voci e movimenti. Bene.
Per il resto, da un punto di vista strettamente drammaturgico, il testo è un furbo gioco di sintagmi destrutturati, smontati, combinati in quattro scene dove si parla di “stupidi giochi di fantasmi” (perché i morti vogliono che si parli di loro, ma i vivi sanno parlare solo di se stessi) e di “tempi scardinati” (perché anche il tempo, come i perché, è un altro tabù di cui è meglio non parlare).
Applausi finali di consenso. Si replica fino a lunedì 19 ottobre.
Il duo Ghiaurov-Dapcevic in un’accanita ricerca di perché. Ma il vero protagonista è lo straordinario facitore di suoni
24 Settembre 2015 by