VERONA, venerdì 5 luglio ► (di Paolo A. Paganini) L’avventuroso romanzo “Moby Dick” (1851), di Herman Melville (1819-1891), ha avuto larga diffusione e diverse incursioni critiche, alcune di originali fascinazioni. Lo scrittore e poeta Jorge Luis Borges nel 1853 dedicò a Melville una poesia di grande impatto drammatico, sintetizzando in pochi versi la disperata caccia del Capitano Achab, così prossimo all’Ulisse dantesco, ma Borges aveva anche intuito anche singolari affinità con Shakespeare (e perfino parentele con Lucrezio e a Kafka), in una potentissima metafora della vita, rappresentata dall’inafferrabile Balena Bianca, irraggiungibile come la verità, entrambi, sia in Omero sia in Dante, così simili nel tessere la propria perdizione in un’oscura ansia di morte.
Del racconto di Melville e dell’ossessione di Achab, oltre a Borges, scrissero, tra gli altri, Harold Bloom e Cesare Pavese (che nel 1930 tradusse in italiano “Moby Dick”).
Il cinema se ne impossessò. Da citare almeno Gregory Peck (Capitano Achab) e Richard Basehart (Ismaele, il marinaio unico sopravvissuto), con la regia di John Huston (1956). Indimenticabile.
E, in teatro, c’è stato un impatto altrettanto tragico e inquietante, con il vecchio cacciatore di balene, personaggio scolpito nell’immaginario collettivo, così vicino alla grandezza di certi eroi shakespeariani, da Re Lear a Prospero, a Macbeth.
Ricorderemo Vittorio Gassman, tragico Achab (con il figlio Alessandro nel ruolo di Ismaele), che, nel Porto Antico di Genova, in occasione dell’Expo 1992, allestì un epico kolossal dal “Moby Dick” di Melville, con l’allusivo titolo “Ulisse e la Balena Bianca”. Partecipava una “ciurma” di ventitré interpreti, nel realistico impianto scenico di Renzo Piano (come una nave baleniera di 40 metri), e con le musiche di Nicola Piovani. Un avvenimento memorabile.
Ora, al Teatro Romano di Verona è la volta di Franco Branciaroli (con la Compagnia Teatro degli Incamminati, regia di Luca Lazzareschi), che, con il suo “Moby Dick” di Melville, recupera massimamente sia Ulisse sia Shakespeare, e soprattutto, riprendendo Jorge Luis Borges, le sue “dos enormas cosas: la balena y los mares que largamente surca…”. Ma Borges aggiunse un’altra “enorme cosa”: “aquel otro mar, que es la Escritura”, che in Melville si estende per 135 capitoli in 600 pagine.
In questo vasto mare di parole, ora, Franco Branciaroli – immenso affabulatore – naviga, per due ore (con un intervallo di quindici minuti). Occupa la scena, con gaudiosa e temeraria volontà di sfida, andando verso ed oltre Capo Horn, le sue personali Colonne d’Ercole, per inseguire, a modo suo, il sogno dantesco di Ulisse nel cercare “virtute e conoscenza”, prima di infrangere vanamente la sua folle ossessione di vendetta contro la mostruosa Balena Bianca. E trascinando con sé, in un delirio di morte, l’equipaggio della baleniera Pequod. Eccetto uno, il marinaio Ismaele, che servirà da narratore e testimone.
Lo spettacolo, nell’adattamento dello stesso Branciaroli, tutto impostato su notturne penombre, fra otto panche e uno schermo di sfondo, monotematico e opalino fra azzurri mari e cieli in tempesta, si snoda come una liturgia ora raccontata, ora imprecata, ora maledetta. L’azione è solo scenicamente accennata. Basta la parola. Così come basta la parola ad alludere al moncone di gamba del capitano Achab, con un normale Branciaroli in scena sulle sue gambe.
Eppure, quella gamba, maciullata anni prima fra le fauci di Moby Dick, è il segno tangibile di un tormento di vendetta, diventando, il vecchio baleniere, simbolo di un’umanità divorata nella lotta implacabile contro il male, contro le proprie Balene Bianche, non solo per divoranti vendette, ma per bisogno di conoscenza e di verità, o per misurarsi con il mistero della ragione, o con le forze della natura, o per confrontarsi con il Cielo. E in questa inutile e irraggiungibile ricerca di verità, un uomo, Achab per esempio, diventa emblematica figura, terribile e blasfema come una divinità pagana, storditamente e fatalmente avviata al suo destino di morte. La Balena Bianca prevarrà in eterno.
Ciò premesso, la storia trascende l’epicità del racconto d’avventura, per diventare simbolicamente una pena e una condanna ritualizzata in una funerea evocazione di morte. E in questo mare affogano tutte le velleità dell’uomo Achab, per il quale a nulla valgono ricordi d’affetti, debiti d’amore, desideri di pace, quando prevalgono odio dolore vendetta e morte. Perfino il tenero capitolo della parafrasi di Lear, in uno dei tanti riferimenti shakespeariani, quando per il vecchio Re, condannato a inutili pentimenti dopo le ingiustizie del suo stolido comportamento paterno, rimarrà solo l’umana tenerezza del suo giullare, il saggio e fedele Matto, in un inutile e ormai vano risarcimento di buoni sentimenti. La partita ormai è persa. Non rimane che la dannazione. O l’amarezza d’un addio. E a poco serviranno anche i sospiri di tenerezza dell’eterea Ariel – altro rimando shakespeariano – per convincere Prospero a rinunciare alle proprie magie.
E ora, a sua volta, il mozzo Pip fuori di testa a nulla servirà con il suo piccolo affetto per Achab, ormai perso nella sua delirante sete di vendetta.
Al Teatro Romano il testo di Melville diventa teatro di parola, non d’avventura. È un atto di coraggio e di temerità. Il coraggio di sottintendere una Balena Bianca, che mai si vedrà (nemmeno su quell’inutile telone di sfondo). Come si accennerà soltanto alla gamba di legno di Achab, il quale deambulerà normalmente. Ma l’operazione è anche temeraria, nel voler opporre alla immaginifica suggestione della fisicità dei mari, della natura, delle tempeste, e del mostro bianco, la sola parola quando diventa sfoggio di effetti, di volumi, di tonalità, facendo di Franco Branciaroli, generoso e potente, eroico e patetico, uno strumento vocalico di portentosi ancorché pletorici effetti chiaroscurali. Quasi a voler competere idealmente con gli stupefacenti exploit dell’indimenticato Carmelo Bene, qui addirittura surclassato dallo spasmodico trionfo di phoné di Branciaroli.
Eccessivo, eppure affascinante nei suoi funambolismi acrobatici.
Ma i più sottili significati esegetici e filosofici dell’opera di Melville vengono stravolti da un feticistico gusto sacrale della parola, in un pirotecnico repertorio di bravura. A scapito dell’avventura. Condannata all’immobilismo.
Prima dello spettacolo, è stato conferito a Ottavia Piccolo il 62° Premio Renato Simoni per la fedeltà al Teatro di Prosa (ma anche al Cinema e alla TV). Riconoscendo in lei anche il suo impegno in molte lotte civili e di impegno politico. Applausi e sorrisi alla sua amabile e straordinaria simpatia.
“Moby Dick” di Herman Melville, adattamento di Franco Branciaroli (Achab). Compagnia degli Incamminati, con Gianluca Gobbi (Ismaele), Sergio Basile (Stubb/Padre Mapple), Luigi Mezzanotte (Elia/Fedallah), Valentina Violo (Pip/Ariel), Francesco Migliaccio (Peleg/Carpentiere/Capitano Rachele), Marko Bukaqeja (Queequeg), Edoardo Rivoira (Tashtego) e Jacopo Morra (Daggoo). Scene e costumi sono di Domenico Franchi, luci di Cesare Agoni, musiche di Germano Mazzocchetti. Regia di Luca Lazzareschi, che sul palco veste i panni di Starbuck. Al Teatro Romano di Verona. Repliche il 5 e il 6 luglio.
Info tel. 0458077500.
www.estateteatraleveronese.it