(di Paolo A. Paganini) Attento collezionista di documenti (e vicende) teatrali, esperto conoscitore del mondo dello spettacolo e delle sue storie più segrete o poco conosciute, Franco Friggeri – 85 anni portati con giovanile nonchalance – da sempre vive e respira di teatro. Attore, organizzatore, amministratore e direttore, è stato una presenza insostituibile dell’indimenticabile, delizioso gioiello di Piazza Beccaria 8: il Teatro Gerolamo. Costruito nel 1868 da Giuseppe Mengoni (l’architetto della Galleria), riproduceva in piccolo la Scala. Era un capolavoro di eleganza e di acustica, con i suoi 84 posti di platea, 90 posti nei palchi, 40 posti in balconata. Nato per la felicità dei più piccoli, il Gerolamo, simbolo della milanesità, dopo lunga e gloriosa tradizione (1905 – 1957) della famiglia marionettistica Carlo Colla & Figli, nel 1958 girò pagina. Il nuovo corso (padrino entusiasta e determinato, Paolo Grassi) si rivolse agli attori in carne ed ossa, di prosa, lirica e canzoni: Eduardo De Filippo, Franca Valeri, Lilla Brignone e, via via, in ordine sparso, come memoria suggerisce, Rascel, la Borboni, Modugno, la Vanoni, Buazzelli, Wanda Osiris, Gaber, Jannacci, Milly…
1960: altra svolta storica. Prende il via ufficialmente al Gerolamo la “Compagnia Stabile del Teatro Milanese”, che diede vita a un interminabile elenco di titoli meneghini di successo. La Stabile divenne tutt’uno con il Gerolamo, fu l’anima stessa del Gerolamo, guidato da uno strenuo, appassionato difensore e massimo artefice del suo successo: Carlo (Carletto per gli amici) Colombo, giornalista (direttore de “L’Avanti!”) e regista, affiancato da Pitta De Cecco e Franco Friggeri. Nacquero spettacoli memorabili, con I Gufi, Massimini, la Melato, Scotti… E bisognerà ricordare almeno un avvenimento, nel 1962, che fece storia: “Milanin Milanon”, di Filippo Crivelli e Roberto Leydi, con Tino Carraro, Milly, Anna Nogara, Enzo Jannacci, Sandra Mantovani. Fu uno straordinario show di canzoni e ballate popolari, con musiche e testi di D’Anzi, Carpi, Negri, Panzera, Jannacci, Marchi, Gadda, Quasimodo, Tessa, Strehler, Fo… E se vi sembra poco!

Sandra Mantovani, Tino Carraro, Milly, Enzo Jannacci, Anna Nogara: i magnifici cinque di “Milanin Milanon” nel 1962.
Poi, nel 1978, alla direzione del Gerolamo subentrò Umberto Simonetta, fino al 1983 (quando il teatro chiuse definitivamente a causa delle nuove disposizioni di pubblica sicurezza, che colpirono molti teatri e sale cinematografiche). Simonetta, scrittore romanziere paroliere drammaturgo, decise di dare un nuovo corso a quel teatrino consacrato al dialetto milanese. Lui, milanesissimo, volle andare oltre il dialetto. Da scrittore e attento osservatore della realtà, ne avvertì, prima di altri, l’usura e la fine. Milano stava per essere sopraffatta dall’urto di un eterogeneo sincretismo linguistico e culturale. E addio dialetto. Vanamente Simonetta giocò la carta di una trasformazione del Teatro Gerolamo facendone un centro stabile di umorismo, di ironia, di satira milanese, come fino a qualche anno prima erano stati i caratteri del cabaret milanese, con il quale si era cimentato lo stesso Simonetta, firmando testi di straordinario e longevo successo (per Maurizio Micheli “Mi voleva Strehler”, per Livia Cerini “Sta per arrivare la rivoluzione e non ho niente da mettermi”, oltre a storiche canzoni in collaborazione con Giorgio Gaber, “Trani a gogò”, “La ballata del Cerutti” eccetera).
Anche il tentativo di Umberto Simonetta, di rigenerare le sorti del Gerolamo con una nuova linea programmatica, fu una battaglia generosa ma inutile. Il Gerolamo, che pur nel 1956 era stato decretato monumento nazionale, finì. Come tanti altri teatri, antichi e recenti: l’Olimpia, il Teatro Uomo, il Sant’Erasmo, l’Odeon, la Piccola Commenda, lo Smeraldo… Come tanti altri luoghi d’arte, costretti a lasciare il posto ai santuari della moda, del designer, della cucina. Come tanti vecchi quartieri milanesi, luoghi di antica cultura popolare, che cambiarono faccia, diventando luoghi di tendenza, poli d’attrazione turistica, come Brera, come i Navigli, come Garibaldi.

Adriana Asti e Piero Mazzarella al Gerolamo nel 1963, con “El testament”, di Ciro Fontana, regia di Filippo Crivelli, bozzetti di Nicola Benois.
I milanesi dimenticano facilmente. Hanno anche dimenticato che per l’Expo era stata promessa la riapertura del Gerolamo (ormai ristrutturato a norma, dicono). Hanno anche dimenticato la propria cultura milanese, la propria storia popolare. Hanno dimenticato i propri grandi scrittori, da Carlo Maria Maggi (il padre della letteratura milanese contemporanea) a Cletto Arrighi (uno dei massimi esponenti della Scapigliatura)…
Ma non tutti hanno dimenticato.
Memoria storica delle tradizioni meneghine e, in particolare del Gerolamo, è il sopra citato Franco Friggeri, conoscitore e propugnatore dei valori poetici e artistici della vecchia Milano e appassionato cultore del meraviglioso (e ormai dimenticato) dialetto meneghino.
Abbiamo incontrato Friggeri a teatro (se non, dove?). Da mezzo secolo, abbiamo nostalgiche consuetudini di piacevoli (e talvolta lacrimevoli) rimembranze. Ultimamente, siamo approdati a una singolare conversazione, iniziata, appunto, dallo spunto del glorioso teatrino di Piazza Beccaria.
Ma qui la piega della memoria prese una imprevedibile svolta, virando sul miserrimo stato della “bella Italia dove il sì suona” (probabilmente ancora per poco nell’impeversante colonialismo anglofilo). Franco Friggeri, con la tipica botta di realismo del milanese scafato, che ha imparato dalla nascita come gira il mondo, fra i tanti scandali all’italiana, s’è messo ad salmodiare sugli ultimi e più vergognosi avvenimenti: viadotti di superstrade che si spaccano per smottamenti e cedimenti strutturali di pilastri appena inaugurati; muri di palazzi, costruiti da poco, che già s’incrinano; soffitti di scuole appena ristrutturate che cadono in testa a ignari bambini; lucernari che crollano improvvisamente…
E, con una inaspettata osservazione, Friggeri scova l’appiglio per l’eterno irrinunciabile argomento preferito, il teatro, che indica come esempio d’italica buona volontà e di ben operare.
“Vorrei chiedere ai tanti geniali costruttori, tecnici, ingegneri di strade, edificatori di ponti e palazzi, canali, autostrade, se non si sono mai soffermati a ragionare sul funzionamento di uno spettacolo di compagnia privata. Lasciamo stare i teatri pubblici che hanno altre risorse e organizzazioni. Un’azienda teatrale privata, prima di mettere in scena uno spettacolo, dopo trenta o quaranta giorni di prove, in qualsiasi teatro, grande o piccolo, dal Manzoni di Milano al Quirino di Roma, prevede un calendario di sessanta/settanta debutti nei 6 o 7 mesi di stagione. Un giro frenetico di debutti, da una città all’altra. E tutte le volte lo spettacolo dev’essere perfetto. Tutti, dai macchinisti agli elettricisti, dai fonici ai direttori di scena, devono sapere alla perfezione qual è il loro ruolo, tutti indistintamente, dal primo all’ultimo, fino ai facchini, che caricano e scaricano, con un perfetto automatismo, in un preciso ordine, tutto il materiale, scene, bauli, costumi, attrezzeria, materiale elettrico e fonico. E così tutte le volte che cambiano piazza. E i camionisti? Da una piazza all’altra fanno dai 200 ai 500 km, viaggiano di notte, e arrivano puntuali davanti al teatro, dove il materiale teatrale verrà di nuovo smontato e rimontato per il nuovo debutto. E così via, di perfezione in perfezione. E la scena, come per il primo debutto, sarà di nuovo montata senza nessuna variante, senza nessun cambiamento, con le scene e gli oggetti sempre al loro preciso posto e nella stessa posizione”.
E gli attori?
“Fin dal primo debutto, di solito a fine settembre o ai primi di ottobre, anche gli attori devono sobbarcarsi a lunghi e faticosi viaggi. Devono ripassare le parti, controllare i nuovi palcoscenici e, anche se stanchi, non possono concedersi nessun errore, nessun inceppamento di parola, per non mettere in difficoltà, con una battuta sbagliata, i compagni di scena. E non è finita. Ogni sera, dopo lo spettacolo, le sarte devono rassettare gli abiti degli attori, lavarli, stirarli, per farli trovare in ordine la sera dopo nei loro camerini”.
E quando, per malaugurata sorte, qualcosa dovesse andare storto? Se tutto non funziona alla perfezione?
“Meglio che non succeda”, conclude Friggeri, “meglio che il pubblico non si spazientisca… I proprietari dei teatri potrebbero contestare le compagnie, e rifiutarsi di pagare il cachet concordato, o dimezzarlo…”.
Insomma esattamente come lo Stato fa, con la stessa severità e tempestività, nei confronti dei responsabili delle tante incurie, dei viadotti che si spaccano, dei soffitti che cadono in testa a innocenti creature. O no?.