Il “Giardino” di Cechov? Non più il tramonto d’una classe sociale, ma d’una intera società divorata dall’affarismo

Pattavina, MercataliCATANIA, lunedì 8 dicembre   
(di Andrea Bisicchia) La prima regola, quando si porta in scena un classico, è quella di cancellare ciò che si è visto. Trattandosi del “ Giardino dei ciliegi”, la tentazione di pensare alle edizioni di Visconti, Strehler, De Lullo, Dodin, è grande, ma dinanzi alla nuova versione di Giuseppe Dipasquale, che ha inaugurato la stagione del Teatro Stabile di Catania, bisogna ripartire da zero, dato che il regista ha deciso di eliminare ogni forma di cechovismo e di realismo lirico, per ambientare il “suo” Giardino in uno spazio spoglio, con arredi che rimandano al mondo artificiale di oggi: l’armadio della stanza dei bambini è di plexiglas, come lo sono le sedie, piccole e grandi.
Per Dipasquale, Il Giardino ha solo una consistenza economica, nel senso che simboleggia, non più il tramonto di una classe sociale, perché in crisi di identità, quanto quello di una società che non ha più soldi ed è indebitata come la nostra. In questo spazio asettico, i personaggi, lungo i quattro atti, perdono ogni consistenza reale, per diventare spettri di un passato che viene logorato da un presente affaristico, perché tutto è subordinato al denaro.
Il Giardino ha anche un forte impatto visivo perché realizzato con 14 alberi di cellofan che cadono dall’alto, il cui tonfo scandisce non solo il tempo, ma anche il taglio dei tronchi, che grazie alle luci di Franco Buzzanca, si ammantano di una atmosfera  fantasmatica. Dipasquale, con l’apporto di Antonio Fiorentino, ha eliminato ogni riferimento al naturalismo, e ha puntato a una dialettica, non tanto tra personaggi, quanto tra anime morte che sublimano il proprio passato, proprio perché hanno perso ogni rapporto col presente. Non ci rimane che il passato, sembra volerci dire il regista, con un finale tutto inventato che vede i protagonisti, con costumi bianchissimi, apparire come fantasmi, dopo il buio dell’ultima scena, quando Firs (Italo Dall’Orto) si abbandona sul divano, dimenticato da tutti, anche perché vittima predestinata di un futuro inesistente.
Magda Mercatali dà a Liuba toni da sopravvissuta, trovando collaborazione nel Gaev di Gian Paolo Poddighe. Per loro non c’è scampo, perché sopraffatti da palazzinari e petrolieri incombenti come arpie, ben rappresentati da Pippo Pattavina, che si muove come Mastro don Gesualdo, e da Camillo Mascolino. Anche la scelta dei costumi di Elena Mannino, un trionfo di bianco e nero, dà la sensazione di questo trapasso. Una menzione particolare merita Guia Jelo che ha trasformato un personaggio secondario, come Sarlotta Ivavnova, in personaggio primario.
Ottimo, pertanto, il lavoro di Dipasquale sugli attori che hanno evitato di cadere nella maniera, per dare profondità e specularità ai personaggi che interpretano. Giuste, infine, le indicazioni che ha dato a Germano Mazzocchetti per le musiche di scena, funzionali e tendenziose, con lo stridio finale che rimanda al taglio degli alberi di ciliegi. Decisivo l’apporto degli altri attori e degli allievi del IV anno della scuola d’arte drammatica, specie nelle scene corali. Pubblico affascinato e plaudente.