Il giudice e l’ergastolano. Dal sottosuolo senza speranza di Dostoevskij alla pietà cristiana di Tolstoj. Fine pena: ora

Paolo Pierobon e Sergio Leone in una scena di “Fine pena: ora” al Piccolo Teatro Grassi. (Foto Masiar Pasquali)

MILANO, mercoledì 22 novembre ► (di Paolo A. Paganini) Salvatore, poco più che ventenne, già ospite delle patrie galere fin dai 16 anni, ora, con una interminabile sfilza di reati e di omicidi, viene condannato all’ergastolo, nel 1985, dopo un estenuante maxiprocesso alla mafia catanese con 242 imputati, durato due anni. A giudicarlo e a condannarlo è il magistrato Elvio Fassone. Ed è una storia vera.
Ma non finisce qui. Questa storia non si conclude, come avviene spesso, con un silenzio sepolcrale dopo una condanna definitiva, mentre un giudice scompare nell’ombra, conscio d’aver fatto il proprio dovere. E basta. La storia invece continua. Per altri ventisei anni. Singolarmente vissuti attraverso una corrispondenza intercorsa tra il giudice e l’ergastolano.
È ora raccontata al Piccolo Teatro Grassi, in un libero adattamento di “Fine pena: ora”, che Paolo Giordano ha tratto dall’omonimo libro di Elvio Fassone (Sellerio Editore), eletto nel frattempo nel Consiglio Superiore della Magistratura, diventato senatore e ora in pensione.
I tratti caratteriali dei due personaggi vanno chiariti. Salvatore è un nevrotico, inquieto, inaffidabile, violento, ignorante, che finisce, tra l’altro, sei anni in una prigione di massima sicurezza.
Il giudice Fassone è un uomo mite e sensibile, che ha una sua idea sull’inutilità del carcere a fronte della necessità di un impegno di recupero, di rieducazione, di lavoro.
Com’è stata possibile quella corrispondenza, fra i due, durata 26 anni?
Il primo, Salvatore, sembra far parte di un capitolo delle memorie del sottosuolo di Dostoevskij. Il secondo, il giudice, sembra uscito dalla concezione socio-pedagogica di Tolstoj, sensibile verso le miserie umane, in virtù di una personale dottrina morale, il cui cristianesimo portò perfino alla creazione di un preciso movimento chiamato tolstoiano, di cui il più grande romanziere di tutti i tempi era il primo a sorridere ironicamente.
Il sottosuolo di questa dostoevskiana casa dei morti, dove si immaginano violenze di carcerieri, umilianti ispezioni corporali, trattamenti disumani attraveso ogni forma di riestrizione della libertà, suscita l’interesse del giudice.
Quasi subito dopo la sentenza, sul cui fascicolo è stampigliato: “Fine pena: mai”, il giudice sente l’imperativo morale di scrivergli, di dargli una luce di speranza. È un giovane uomo, che va aiutato a crescere e a sperare. Doveva essere solo una lettera. Divenne un impegno morale durato 26 anni, dapprima con un recalcitrante Salvatore, poi sempre più conquistato dal suo amore di redenzione, fino a diventare un altro. Fino a scrivere al giudice frasi come: “Le condanne non servono a niente. Io ho imparato dalle sue lettere…”. O, ancora, a manifestargli pensieri come: “Se suo figlio nasceva dove sono nato io, a quest’ora forse era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, forse a quest’ora ero un buon avvocato…”.
Sono i capricci del caso, della fortuna, che tuttavia nulla può sulla nobiltà di un’anima, sul desiderio di riscatto, sulla capacità di redenzione, di elevazione morale, di dignità, di senso dell’onore. L’onore? La dignità? Sono la stessa cosa, dirà Salvatore. Se io dicessi, se io parlassi – come collaboratore della giustizia – sarei solo un infame…
E, per non essere un infame, studiò, si applicò, partecipò a ogni corso del carcere. Si emancipò da se stesso, da quello che era, anche se nel frattempo tentò un liberatorio suicido, per poter idealmente stampigliare sul fascicolo: non più fine pena : mai, bensì “Fine pena, ora“.
Al Piccolo, dunque, in un’ora e quaranta senza intervallo, Paolo Pierobon (Salvatore) e Sergio Leone (Il Giudice) hanno dato vita a un’operazione drammaturgica semplicemente memorabile. Il giudice e l’ergastolano s’incontreranno solo due tre volte, ma è soprattutto in quella loro corrispondenza che si cementa l’incontro di due combattute anime, quella del giudice per cercare, forse, un risarcimento a un dolore involontariamente arrecato, e quella dell’ergastolano, che passa attraverso una propria dilaniante rivoluzione, grazie a un giudice, che via via diventa educatore, avvocato difensore e, infine, amico. O meglio, padre.
Regia di Mauro Avogadro, con onestà, senza trucchi melodrammatici, ma non per questo meno toccante e commossa, in un ambiente più metafisico che realista.
Alla fine, tutti in scena, attori, tecnici, regista e lo stesso Giudice Fasone, in un accomunante scroscio d’intensa partecipazione.
Si replica fino a venerdì 22 dicembre.

“Fine pena: ora”. Dal libro di Elvio Fassone. Drammaturgia di Paolo Giordano. Regia di Mauro Avogadro. Con Sergio Leone (Il Giudice) e Paolo Pierobon (Salvatore) – Scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca, luci Claudio De Pace, musiche Gioacchino Balistreri –  Al Piccolo Teatro Grassi (Via Rovello 2, Milano)

Informazioni e prenotazioni 0242411889
www.piccoloteatro.org