(di Paolo A. Paganini) C’è poco da essere schizzinosi. È Plauto, bellezza. A volte non ci si rende conto che il teatro, e lo spettacolo in genere, ha due linguaggi, ben diversi uno dall’altro: uno parla alla pancia degli spettatori, l’altro alla testa. Uno si propone di solleticare nel popolino l’istintualità più becera, irrispettosa, volgare e malandrina. L’altro si rivolge ai più raffinati cultori dello spirito, dell’intelligenza, della buona creanza, della cultura. Uno ama la risata grassa, godereccia e sguaiata, coinvolgendo pancia e sotto pancia, l’altro predilige semmai il sorriso di testa, apprezza le sfumature psicologiche e la profondità dei caratteri. Insomma, duemila e duecento anni fa, o giù di lì, da una parte c’era il geniale e cialtronesco Plauto, dall’altra c’era il raffinato e riflessivo Terenzio. Indovinate chi era il beniamino del popolo.
Tenendo presente questa premessa, e cercando di non fare confusione con i due generi di cui sopra, abbiamo assistito nel milanese Teatro Carcano ai “Menecmi” di Plauto (e ribadiamo per l’ultima volta che un conto, anche cinquant’anni fa, era andare a vedere chiassosi varietà di provincia, con comici dal doppio senso facile e donnine più affamate che famose, un altro conto era andare a vedere Pirandello o Goldoni). In scena, Tato Russo nel doppio ruolo dei gemelli del titolo, in una sua personale commistione con “La commedia degli equivoci” di Shakespeare, intrusione legittimata dal fatto che lo stesso drammaturgo inglese aveva fatto man bassa dei Menecmi plautini.
In questo tutt’uno di caratteri e riferimenti, si snoda la scontata e furbesca vicenda del Gemello n. 1, ben accasato e puttaniere, e del Gemello n. 2, semplicione e ingenuotto, che, rapito in giovane età, capita con il proprio servo proprio nella città (qui, una Napoli pompeiana) dove vive il fratello, entrambi all’insaputa uno dell’altro. L’integerrima moglie e l’amante sgualdrina del n. 1 diventano ovviamente il pretesto degli inevitabili qui-pro-quo, tra lazzi e battutacce, che rimbalzano dall’una all’altra donna, in abbondanza di copule e di crapule, a beneficio soprattuto del n. 2. Con l’incontro finale dei gemelli, che dopo due ore di spettacolo (con un intervallo), finalmente si riconoscono, chiarendo equivoci e malintesi, si conclude lo scontato tormentone di risate in libertà, spedendo a casa, felici e contenti, tanti giovani e meno giovani, come allora, nell’antica Roma, se ne saranno tornati, felici e contenti, plebe e quiriti.
Tato Russo, protagonista dei due gemelli, ne dà fregolistiche prove di piacevole humour partenopeo, in ciò coadiuvato (ah, l’antica tradizione comica della “spalla”) dai servi, dell’uno e dell’altro, Massimo Sorrentino e Rino Di Martino. La cortigiana Erozia è generosamente interpretata da Clelia Rondinella, e al loro posto anche tutti gli altri. Il coro di prostitute, ancelle e femminielli, compresa una scena di nudi femminili (le donnine del nostrano varietà non arrivavano a tanto, ma a Roma, ai tempi di Plauto, forse sì). La regia di Livio Galassi ci guazza senza tanti problemi con gaudiosa voluttà, mischiando disinvoltamente le carte di Plauto e di Shakespeare.
“Menecmi”, con Tato Russo. Al Teatro Carcano, Corso di Porta romana 63, Milano. Repliche fino a domenica 30 marzo.
Poi, sarà a Napoli, Teatro Augusteo, dal 4 al 13 aprile
Il godereccio Plauto dei “Menecmi”: come parlare alla pancia (e giù di lì) senza tanti problemi
21 Marzo 2014 by
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