Il lieve humor di Verdi? Non c’è. E Michieletto? Niente scandali. Ma un grande Maestri. E le raffinatezze di Mehta

MILANO, venerdì 3 febbraio ► (di Carla Maria Casanova) So già che riceverò insulti. Alcuni giorni fa il mio Editore Zecchini ha ricevuto una mail da tale signor Alessandro Bisson il quale annunciava di essersi prontamente astenuto dall’acquisto delle mie Memorie dopo aver visto in copertina il nome di Damiano Michieletto citato tra gli artisti con i quali io ero “a tu per tu” (male, signor Bisson, aver rinunciato alle mie Memorie: non sa quello che perde!). Zecchini per prudenza non mi ha fornito la mail del mancato lettore, ma io gli avrei solo detto: Ricorda come veniva accolto Ronconi?).
Avete dunque  già capito che a me Michieletto interessa. Con le dovute riserve, ma lo trovo  intelligente e mai pressappochista. Ha idee. Magari non sempre sublimi però il suo percorso ha un principio e una fine.
Veniamo al Falstaff andato in scena ieri sera alla Scala. Diciamo pure che questo Falstaff non è il suo capolavoro. E più sorprendente è che ieri sera alla Scala (Michieletto) non è stato sommerso di fischi. Qualche timido buu in una selva di applausi per tutti, in primis per Ambrogio Maestri, protagonista. Insomma, non ci si può più fidare neanche del pubblico!
Come oramai anche le pietre sanno, questa volta l’idea del  regista – la produzione viene da Salisburgo dove è stata applauditissimo – è di trasportare la storia delle Allegre comari in Casa Verdi (la milanese Casa di riposo per musicisti). Se uno non ci è mai stato, non la individuerà, ma l’ambientazione è leggibilissima e perché lo sia del tutto, sul sipario, durante l’intervallo, è proiettata la celebre facciata dell’Istituto. Falstaff vive qui una sorta di sogno: quando non in azione, è steso su un grande divano. Motivo pratico: Ambrogio Maestri, oramai il Falstaff per antonomasia, è un omone gigantesco di 140 chili e muoverlo non è uno scherzo. Buttarlo giù dalla finestra nella cesta della biancheria? Non se ne parla. Viene dunque sepolto da un enorme lenzuolo, sotto il quale è acquattato e dove è alla fine scoperto. Soluzione onesta. Maestri dice che i registi dovrebbero capire che muovere tutta quella massa corporea è per lui molto faticoso ed è grato a Michieletto di averlo capito. Il sogno di Falstaff si alterna tra ricordi (nel qual caso le “Comari” hanno costumi d’epoca) e presente (tutti vestiti con abiti attuali). È costante il problema del bere e del mangiare: le inservienti della Casa arrivano proponendo grandi piatti, per una realistica ora del pranzo. L’ultimo atto è il più ostico per qualsiasi realizzatore: la notte delle fate costituisce sempre un problema. Allora, nel salone degli eventi della Casa di riposo si trasportano a vista i vasi di piante verdi dell’arredo, e si costruisce una sorta di bosco, come si trattasse dell’allestimento di una recita privata. Geniale è dir troppo, però soluzione teatrale che funziona sì. Invece, quello che manca in questa produzione è il sorriso. Qualche momento ridanciano c’è, ma di quel lieve humor dell’ottantenne Verdi non v’è traccia. Peccato, perché così è facile sperderla anche nella musica.
Comunque Mehta, sul podio, ha portato l’orchestra a belle raffinatezze e ha gestito senza problemi il cast, quasi tutto già collaudato. Maestri è un gigante, già detto. Lo è anche oltre la mole. Il resto del cast si comporta onestamente, senza presenze fuori classe. Interpreti principali: Massimo Cavalletti (Ford), Francesco Demuro (Fenton), Carmen Giannattasio (Alice), Giulia Semenzato (Nannetta), Yvonne Naef (Quickly), Annalisa Stroppa (Meg). Tutti applauditi. Chi voleva lo scandalo, questa volta è rimasto a bocca asciutta.

Teatro alla Scala, “Falstaff”, di Giuseppe Verdi. Repliche: 5,7,10,15, 17,19,21 febbraio.
www.teatroallascala.org