“Il mercante” di Shakespeare al Piccolo secondo Binasco (ma forse lui pensava di fare Goldoni)

MercanteVERT_Orlando_fotoCassin(di Paolo A. Paganini) “Il mercante di Venezia”, con molta approssimazione qui attribuito a un incolpevole Shakespeare, ma il (de)merito è tutto da assegnare al regista Valerio Binasco, possiamo sbrigativamente definirlo una patacca di successo. A solleticargli la pancia, il pubblico ci sta sempre. Per questa sgangherata ma coerente operazione ci si son messi l’Estate Teatrale Veronese, la Oblomov Films e il Teatro Stabile di Torino, insomma tanto rumore per nulla. L’errore di fondo nasce da un equivoco. Valerio Binasco ha preso Shakespeare, ma credeva di fare un Goldoni in chiave moderna in tuba e paglietta, con vecchi avari crudeli e autoritari, padri di fanciulle innamorate e non tanto timorose, giovani scioperati da bottega del caffè, fuitine con giovani vanesi, nobildonne travestite da Vispe Terese, con ancelle un po’ baldracche e un po’ maitresse, qualche vago sentore di mare, con navi alla deriva, come i sentimenti, e poi affari con moderna concezione di usura bancaria, amicizie equivoche, in un mondo senza valori, scroccone interessato e godereccio. Oggi, insomma. E qui dobbiamo per forza dare ragione a Binasco. Ma Shakespeare non c’entra.
Opera ambigua, più fariseicamente antisemita che moralmente impegnata sulle tante e molteplici ragioni sociali, religiose, ideologiche, tutta giocata su un cavillo finale da novello Azzeccagarbugli, “Il mercante di Venezia” si sviluppa almeno su tre piani: la storia tormentata d’un prestito di tremila ducati a uno spiantato perdigiorno per consentirgli d’impalmare una ricca fanciulla, l’amore contrastato di una ebrea per un giovane cristiano, il dramma di un onesto e generoso mercante che perde tutti i suoi traffici mercantili dopo essersi esposto a un prestito, che ora non può più onorare (salvo il debito mortale di una libbra della sua carne). Su tutto – parliamo sempre dell’opera di Shakespeare – giganteggia la straordinaria figura dell’ebreo usuraio Shylock, simbolo immortale e patetico d’un ricco poveraccio, senza fede, senza ideali, senza sentimenti, capace solo di far soldi con l’onestà di chi si crede nel giusto, perché, tutto sommato, sono gli altri che han bisogno di lui. In altre parole, attualizzando il ragionamento, chi è più responsabile: chi chiede un prestito a una banca, e poi non è più in grado di restituirlo, o la banca che poi, per tornare in possesso del capitale, ti pignora tutti i beni mandandoti sul lastrico? Basta.
Qui, ora, al Piccolo Teatro Strehler, in quasi tre ore di spettacolo con un intervallo, la figura centrale dell’usuraio Shylock è interpretata da un dimesso (e sommesso) Silvio Orlando (nella foto di Cassin), l’unico serio (e vagamente spaesato) in un coro di pazzi scatenati da commedia dell’arte, tutti bravi e così sbagliati, in questo capolavoro, senza più poesia, senza più tenerezze, indignazioni, atmosfere, ombre e luci, tutto giocato in plein air in una incredibile carnevalata, che a Verona, nell’estiva stagione del Teatro Romano poteva avere una sua giustificazione vacanzaiola (compresa l’autarchica scenografia), ma che ora avrebbe avuto bisogno di una più rigorosa e approfondita revisione. Successo incredibile di pubblico (dunque chi ha ragione?).

Si replica fino a domenica 24.