Il norvegese Jon Fosse, esasperato continuatore di Ibsen, tra gli spettri dell’anima. In laceranti naufragi sentimentali

MILANO, giovedì 23 marzo ► (di Paolo A. Paganini) Il conterraneo Ibsen era un allegrone rispetto a Jon Fosse. Ma così come il primo è stato il più celebre scrittore e drammaturgo dell’Ottocento, così Jon Fosse viene spinto da tutte le parti perché diventi il più celebre del Novecento, ed oltre. E, in effetti, dopo Ibsen, il più rappresentato è Fosse, non solo in patria, ma anche fuori dalla Norvegia, quasi rappresentando, però, un filo di continuità, tra i lacerati personaggi ibseniani e le anime turbate, o malate, o vinte, di Fosse, in un devastato naufragio di valori, dove una disperata volontà di amore tenta di aprire inutili varchi di speranza, mentre il tempo corre a precipizio tra una vita senza sogni e una morte senza rimpianti.
Basta andare al Teatro Franco Parenti, dove è in scena “Sogno d’autunno” del cinquantottenne Jon Fosse, per rendersi emblematicamente conto della sua angosciata poetica. Una coppia s’incontra casualmente, o forse no, in un cimitero, tra croci lumini e lampade votive. Non è proprio l’Antologia di Spoon River. Qui, ora, non sono i morti che parlano della loro vita. Sono i vivi che parlano delle croci nelle loro anime morte. I due, l’Uomo e la Donna, hanno avuto una lunga storia. Quando tutto finì, la Donna, senza figli, senza nessun altro, rimase sola, coltivando, non appagata, il ricordo di lui. L’Uomo si risposò in seconde nozze, dopo il divorzio da una prima moglie, dalla quale aveva avuto un figlio. Ora, con la seconda moglie, ha altri figli, anche lui in una inappagata, eppure rassegnata nostalgia di ricordi dopo la separazione dalla Donna. E adesso sono lì, su una panchina, in un brumoso meriggio d’autunno, a ravvivare non sopiti desideri d’amore. Mentre dalle lapidi occhieggiano foto e date, di vite senza storie e di morti dimenticate in un inevitabile oblio d’affetti.
“Tutto è un gioco, un gioco terribilmente serio…”, “Sono successe così tante cose…”, “È passato tanto tempo…”, “Era così vecchio…”, “Aveva la sua bella età”: sono le frasi ricorrenti, specie dopo la comparsa dei vecchi genitori a far rivivere nell’anima del figlio lacerti di amori finiti, frammenti di vita, funerali di avi, tragedie familiari, perfidie di madri, quando rimpiangono quanto fosse bella e buona la prima moglie del figlio, per il gusto sadico di riaprire vecchie ferite, di rinfocolare complessi di colpa…
Nient’altro. In un’angoscia esasperata eppure affascinante. Un lugubre senso di sconfitta, un dolore che fa male, e che avvinghia (in un’ora e un quarto senza intervallo). E che, tanto o poco, riguarda tutti. E così vero e rapinoso, come un ipnotico e crudele gioco di verità e di sconfitte. Dove tutto è già avenuto. Dove la vita è stata solo un gioco, un gioco terribilmente serio.
Valerio Binasco, senza fronzoli o pietose indulgenze, ha firmato questo allestimento con un rigore tutto impostato sulla fisicità degli interpreti e sul carattere dei personaggi. Tre donne e due uomini in un amalgama di rara potenza. Nell’ordine: Giovanna Mezzogiorno è la Donna, un capolavoro di passionale ed esasperata volontà d’amore; Milvia Marigliano, una vecchia crudele fino alla perfidia nel ferire il figlio e la sua nuova Donna (mondieu, che brava, sempre più brava); Teresa Saponangelo, la prima moglie, in disparte, ma con una scena madre da brividi. Michele Di Mauro è l’Uomo, con tutte le stigmate di tutti gli uomini, con le loro debolezze, insicurezze, incertezze. Giusto e corretto nel suo disincantato ruolo di vinto. E una particolare sottolineatura al ruolo, tutto in ombra, e tuttavia superbamente teatrale, del vecchio padre, sapientemente inutile e ripetitivo, nelle sue mugugnanti pillole di luoghi comuni.
Applausi incondizionati alla fine per tutti. Non perdetevi, ai ringraziamenti, un breve “ripasso” delle scene madri dello spettacolo sotto forma di pose fotografiche.
Si replica fino a domenica 2 aprile.

INFO
Tel : 02 59 99 52 06

biglietteria@teatrofrancoparenti.it