“Il pirata” alla Scala non meritava simili bordate di fischi. Ma per gli inconsolabili “vedovi” della Callas è stata lesa maestà

MILANO, sabato 30 giugno ► (di Carla Maria Casanova) “Il pirata” di Bellini alla Scala non si dava da 60 anni pari pari: ultima andata in scena 19 maggio 1958. Protagonista Franco Corelli. Gli “altri” erano Maria (ancora Meneghini) Callas ed Ettore Bastianini. Fu l’opera della rottura Callas/Ghiringhelli. Si ricorderà che la Callas, nella scena finale della pazzia, accompagnò le parole  “quel palco funesto” con un gesto che indicava senza possibilità di fraintendimenti, il palco del sovrintendente. La Divina sarebbe tornata alla Scala solo il 7 dicembre del 1960 per il Poliuto, seguito dall’ultima non felicissima Medea . Poi Onassis. Fine.
Questo ritorno del Pirata, molto atteso (o forse no) dà per protagonista, cioè nella parte essenziale dell’opera che è quella di Imogene, il soprano bulgaro Sonya Yoncheva (1981) che alla Scala è già stata applaudita in Bohème e l’anno prossimo è in cartellone con Traviata. È una bella donna, bella e ampia la voce (spericolato registro acuto). Ha chiuso con una mirabolante pazzia, applauditissima.
Però lo spettacolo è stato robustamente fischiato, come non accadeva da tempo, in crescendo: tenore un poco, baritono un po’ di più, direttore decisamente e infine, con sostenuti buu, i fautori dell’allestimento.
Secondo dei sentito dire, il motivo è che certi loggionisti, cioè i vedovi Callas (ma, santo cielo, sono una vedova Callas anche io, però non posso immaginare tanta scemenza) erano venuti per fischiare “lei”, che usurpava il posto lasciato vuoto dalla Divina da anni 60 (ricordiamoci le vicissitudini della Traviata post Callas).
La Yoncheva essendo stata irreprensibile, i loggionisti frustrati, hanno fischiato a caso.
A questo punto procederò con annotazioni del tutto personali e magari arbitrarie.
Mettiamola così: io provenivo dal Riccardo III visto a Venezia (conviene leggere prima la critica: qui). Ieri sera, non appena si è alzato il sipario sul Pirata mi son detta “Non ci siamo”. Scena tradizional/moderna, falso Ottocento, banale. I soliti costumi romantici: bianche crinoline e frac con cilindro. Recitazione scontata. Non una benché minima ideuzza. Quando penso alla classe, alla levatura, alle invenzioni del Riccardo III capisco perché Carsen è Carsen. Il sia pur onorato team Emilio Sagi/ Daniel Bianco/ Pepa Ojanguren è un’altra cosa.
Abbiamo però sentito cantare bene: del soprano si è detto. Il tenore Piero Pretti (Gualtiero) svetta sicuro nel registro acutissimo (nella sua parte qui sono stati aperti vari tagli che Corelli, nella pur sfolgorante voce, mai avrebbe potuto affrontare); Nicola Alaimo ha bellissimo colore baritonale ma di corpo (parliamo di voce) non abbastanza robusto per il ruolo di Ernesto. Qualcuno avrebbe dovuto capirlo. Riccardo Frizza, bresciano, poco più che quarantenne, ha debuttato alla Scala nel 2016 dirigendo Oberto. A sei anni era stato portato a un concerto. Guardato il direttore, disse “Voglio diventare come quel signore”. Era Karajan. L’occhio (Frizza) l’aveva avuto buono. Come quel signore non è diventato, ma la sua direzione di ieri, equilibrata e puntuale, non avrebbe dovuto provocare scontenti. Invece quei fischi.
Gossip: all’uscita al sipario per gli applausi finali la Yoncheva è incespicata nella buca d’orchestra ed è caduta lunga distesa. Pubblico con fiato sospeso. Alla seconda uscita è stata la volta della costumista: stesso punto, stessa caduta. “È la nemesi della mano nera!” Di chi?

“Il pirata”. Repliche: 3, 6, 9,12, 14, 17,19 luglio.

 

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