MILANO, martedì 21 ottobre
(di Paolo A. Paganini) Dopo il successo di “The History Boys” (2004), la superpremiata commedia di Alan Bennett e strepitoso successo nel 2010/11 di quelli dell’Elfo, al Puccini, Ferdinando Bruni e Elio De Capitani ripescano un altro Alan Bennett, con uno dei suoi ultimi lavori, “Il vizio dell’arte”, sempre al Puccini, che oltre all’arte, che quando ti prende diventa un vizio e non ti lascia più, parla di altri vizietti, anch’essi tenaci assai, tra maschietti escort, pompinari e marchettari.
Qui, l’espediente narrativo è dato, teatro nel teatro, dalle prove della messinscena di un incontro di due consacrate glorie dell’arte, cioè dei due ormai ultrasessantenni amici, che si rivedono dopo una ventina d’anni, o forse trenta: il poeta britannico Wystan Hugh Auden e il musicista Benjamin Britten (sepolti nella basilica londinese di Westminster), e omosessuali in allegria.
Ora si penserà: chissà quale spregiudicato e pruriginoso allestimento sarà venuto fuori, visti i caratteri dell’argomento in questione (e, magari, chissà mai quale messaggio si tenterà di contrabbandare viste le recenti battaglie sui diritti civili di cui si parla e straparla i giorni nostri). Niente di tutto ciò. O, meglio, che i due omosessuali siano una realtà scenica è assodato, che ci sia un giovane e patetico marchettaro è un’altra inalienabile realtà, che si parli di “estetica” dell’omosessualità, tipo, per capirci, “Morte a Venezia” di Thomas Mann (del quale Auden era cognato e Britten si preparava a metterne in musica la scabrosa storia), di tutto questo,certo, si parla, eccome. Ma con spassosa ironia. E, soprattutto, si parla di arte, di poesia, di musica, e – essendo l’artificio drammaturgico, come s’è detto, una messa in prova dell’incontro dei due vecchi artisti (che hanno perso il pelo ma non il vizio) – si parla di teatro, ci sono illuminanti passaggi tecnici, stilistici e interpretativi di assoluta bellezza.
Dallo sdoppiamento tra interpreti e personaggi, si scatenano una baraonda di generi in esilarante commistione, un bailamme di macchiette, di eccentriche personalità, di caratteri stralunati, di isterie primattoriali, passando dalla disperazione dell’Autore presente alle prove, che vede stravolgere la propria creatura letteraria, alle velleità di giovani attori, che si rifiutano di essere solo secondari e “di servizio”, dai tecnici e dai suggeritori, che sbagliano le entrate e mettono lingua anche quando non dovrebbero, ai rissosi battibecchi su come interpretare una battuta, dalle velenose cattiverie dei cari colleghi alle consolatorie parole di pace per far andare avanti la macchina teatrale… E, se non bastasse: siparietti comici da varietà, assoli da teatro dell’assurdo, rughe che parlano e mobili che disquisiscono; e, ancora, qui-pro-quo d’imbarazzante felicità.
Per capirci – e la gente di teatro mi perdonerà, essendo i paragoni sempre antipatici – non s’è mai riso tanto dai tempi di “Rumori fuori scena”, di Michael Frayn, allestito nell’82 da Attilio Corsini con la compagnia Attori&Tecnici”.
Nell’elogio, non si può non mettere in evidenza lo straordinario affiatamento e i perfetti tempi scenici di tutti gli interpreti. Elio De Capitani, sdoppiato fra attore e personaggio, fa un Britten tenero, affettuoso, d’impacciata simpatia: da manuale. Ferdinando Bruni (che, con Francesco Frongia, firma la regia) è uno spassoso, spregiudicato, tagliente interprete/personaggio, di abissale bravura nelle sue perdite di memoria, come attore che non studia la parte e come Auden, con i segni di qualche precoce demenza senile, pasticcione disordinato e (come fanno realmente molti attori) un po’ porcello nel pisciare nel lavandino. Ida Martinelli, nella parte dell’aiuto regista (ed altre perfomance) è semplicemente perfetta. Una piacevolissima sorpresa sono i due giovani interpreti Umberto Petranca (il Biografo) e Vincenzo Zampa (l’Attrezzista). Ma bene: Alessandro Bruni Ocaña, Michele Radice, Matteo De Mojana (suona dal vivo alla tastiera).
Una spassosa, intelligente e geniale operazione da non perdere. Lo spettacolo in due tempi di un’ora e dieci ciascuno forse andrebbe rivisto con qualche taglio, specie nella parte finale, che risente di troppi scampoli di decadente ripiegamento sentimental-romantico. Ferdinando Bruni, sul far del finale, recita un’appassionata poesia di Auden, e poi commenta: “Io finirei qui!” Avrebbe avuto ragione.
Un subisso di applausi e di risate a scena aperta, e alla fine tutti in scena in un tripudio di osanna.
“Il vizio dell’arte” di Alan Bennett, uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Con Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Ida Marinelli. Al Teatro Elfo Puccini, corso Buenos Aires 33, Milano. Repliche fino a domenica 16 novembre.
Il più straordinario e spassoso bailamme comico dai tempi di “Rumori fuori scena”, ma con “Il vizio dell’arte” ancor di più
22 Ottobre 2014 by