(di Patrizia Pedrazzini) – Diciamolo subito. “Il principe di Melchiorre Gioia”, di Andrea Castoldi (“Vista mare”, “Non si può morire ballando”) è uno di quei rari film dalla visione dei quali si esce facendosi una precisa e sconsolata domanda: ma perché? Anche se forse, anzi quasi certamente, la risposta sta già tutta in quel sottotitolo: “Una storia inutile”. Perché, in effetti, la vicenda di questo non meglio identificato “principe”, perdigiorno nullafacente e nullatenente, che si licenzia, annoiato, dopo pochi mesi, dall’unico lavoro decente che è riuscito a trovarsi per comprarsi, con i pochi soldi della liquidazione, un ignobile finto pellicciotto, e che, al massimo, finisce col distribuire volantini agli angoli delle strade (ma ci mette poco ad annoiarsi anche di questo, per cui i volantini finiscono, al volo, nei bidoncini della spazzatura), è veramente quella di un uomo “inutile”. Per sé e per gli altri. O meglio, come gli fa notare a più riprese la sconsolata nonna, con la quale vive – e che lo mantiene – di un “pirla”. Che, tradotto, dal milanese, sta più o meno per: stupido (tanto), imbecille (assai) e (parecchio) fesso.
Ecco allora le inutili performances del nostro eroe in quel di Melchiorre Gioia, strada milanese della perdizione notturna a buon mercato, fra il centro e la periferia, dalla fine degli anni Novanta ai giorni nostri. La notte dentro e fuori i non pochi locali di travestiti e prostitute, con il conforto, che non manca mai, di qualche striscia di cocaina (pagata coi soldi della nonna, si presume), e al più con il velato ricordo di un passato amore: una ragazza “sana”, che infatti lo ha lasciato. Il giorno, niente: l’indolenza tradotta in stile di vita; il disappunto per tutto ciò che potrebbe, pericolosamente, portare fuori dai binari della propria misera, ma anche maledettamente comoda, esistenza; il vuoto di un’umanità che sembra essersi persa sui marciapiedi delle strade laterali.
Il tutto infarcito da un intercalare non propriamente bon ton, anzi decisamente pesante e fastidioso, al quale tuttavia, con il passare dei minuti, si fa abbastanza l’abitudine, figlio com’è anch’esso dei tempi e, evidentemente, di un mondo al quale non si è certo estranei. Anche se, dopo 87 minuti, francamente non ce la si fa più, come si faticano a reggere la gestualità e le espressioni facciali del protagonista, interpretato da Silvio Cavallo, sempre uguali, perennemente ripetute e riprese, a evidenziare, casomai ce ne fosse ancora bisogno, quel senso di noia di vivere che pervade tutto il film.
Che poi la storia di questo poveraccio misero e disilluso possa essere letta, come piace sottolineare al regista, come “un omaggio ai perdenti e a tutti quelli che ci provano senza mai riuscirci”, può risultare, da un lato interessante, dall’altro tirato per i capelli.
Per cui va bene che nessuna storia è di per sé “inutile”, però la domanda rimane: ma perché?
“Il principe di Melchiorre Gioia”. Ovvero l’inutile storia di un perdente che vive senza un perché. E tutto il resto? È noia
26 Ottobre 2022 by