Il rinnovamento del teatro d’Opera lo si deve anche ai grandi registi, vedi: “Die Soldaten”, con la regia di Alvis Hermanis

Bisicchia soldatenMILANO, mercoledì 21 gennaio  ♦  
(di Andrea Bisicchia) Dopo la chiara recensione di Carla Maria Casanova (v. domenica 18 gennaio), “Die Soldaten” di Zimmermann, visto alla Scala, trattandosi di un capolavoro, merita un secondo intervento, non certo di carattere musicologico, bensì scenico, dato che la regia, affidata ad Alvis Ermanis, risulta una componente decisiva per esaltarne la mirabile composizione. Ciò che colpisce, a sipario aperto, è la tripartizione dello spazio, quello della camerata, quello dell’addestramento dei cavalli che diventa anche luogo di educazione al trotto per signore e signorine, quello della famiglia borghese di Maria, la protagonista  che subisce una duplice violenza.
Gli spazi inventati da Hermanis sono anche spazi della mente, in particolare quella dei soldati, ai quali, nell’epoca in cui fu scritto il testo da Lenz, era vietato di prendere moglie, avendo prestato giuramento di vivere in castità. La loro devozione era rivolta solo alla patria e non verso una possibile donna da amare, tanto che il noto Idealismo doveva dare più spazio all’ideologia militaresca, piuttosto che alla passione e ai sentimenti.
Il regista ha cercato di visualizzare questi conflitti, di dare dei segni forti, utilizzando linguaggi diversi, che vanno dal dramma romantico a quello naturalista,dal teatro d’ombra all’espressionismo, intervenendo sulla psiche dei protagonisti,sulle ragioni del loro agire, ricorrendo a proiezioni di immagini di nudo femminile, con riferimenti ai bordelli d’epoca, ma anche ai sogni erotici dei soldati. L’eros assume forme diverse, quelle dello stupro,dell’autoerotismo, dell’onanismo, della libidine. Il bisogno d’amare si trasforma in incubi, deliri o sogni erotici. Hermanis tratta questa materia con pudicizia, senza alcuna volgarità, evita, sapientemente, le pacchianerie e le grossolanità di certe riscritture, che tali non sono. Ogni suo intervento è meditato, rigoroso, non si sovrappone né ai cantanti, né alla concertazione, anzi la sua regia è capace di armonizzare il tutto, come accade, all’inizio del secondo atto, quando gli attori-cantanti prendono il posto in scena, proprio come gli orchestrali nella buca. I cavalli veri, le balle di paglia fanno pensare a un iperrealismo che giustifica la caratterizzazione del coro che interpreta i soldati, intento ad azioni militaresche come il bere, il giocare, il pulire gli stivali, il ballare tra gli uomini, il tagliare i capelli, il sesso onirico.
Hermanis non tralascia nulla, dai particolari perviene all’universale.
Tutto questo per dire che un grande spettacolo, anche nel teatro d’Opera, deve molto al regista, creatore di due drammaturgie, quella della riduzione del testo e quella della scrittura scenica, le cui dinamiche inventive, quando sono supportate dal rigore filologico, non presuppongono soltanto il testo, ma lo riproducono, lo “riscrivono”,attraverso l’articolazione degli spazi, degli aspetti visivi, dello scambio che riescono a realizzare tra scena e platea, tanto che, spesso, il nome del regista assume una particolare autonomia. Per farmi capire, ormai si è soliti dire, per esempio, “Il don Giovanni” o “Così fan tutte” di Strehler, “L’incoronazione di Poppea” di Ronconi o quella di Bob Wilson che, fra non molto, vedremo alla Scala.