Il rude montanaro, uscito di galera, disprezzato in paese, per riscattarsi decide di andare da solo a cacciare “el diaol”

pelle-orso-3(di Emanuela Dini) L’intenzione era lodevole e le ambizoni alte per questo film ambientato nelle montagne bellunesi negli anni ’50 e che racconta una doppia storia: da una parte la caccia a un orso che scende a valle e fa strage nelle stalle, el diaol (il diavolo), dall’altra il recupero di un rapporto aspro e difficile tra padre e figlio quattordicenne.
Protagonista Marco Paolini, che qui, tra le sue montagne, gioca in casa e dà corpo, vita e volto al montanaro Pietro Sieff, uomo rude, uscito di galera, consumato dalla solitudine e dal vino, vedovo, con un rapporto pressoché inesistente fatto di sberle e urlatacce col figlio Domenico (Leonardo Mason).
Deriso e disprezzato dai compaesani, Pietro cerca il riscatto annunciando che partirà da solo, zaino e fucile in spalla, per addentrasi nei boschi e dare la caccia al diaol. Il figlio lo seguirà e riuscirà a ricostruire il rapporto col padre, anche se in extremis, trasformandosi da bocia (ragazzino) in giovane uomo.
Nelle note di regia, il regista esordiente Marco Segato afferma di voler raccontare la “grandezza del piccolo uomo mentre affronta la grande bestia, il superamento della linea d’ombra che segna l’uscita dell’uomo dall’età dell’innocenza per entrare in quella delle grandi sfide contro i mostri della natura e dello spirito”, e fa capire di volersi misurare con temi e strutture già affrontate da Mark Twain, Ernst Hemingway e Jack London.
Si, vabbé…
Alla prova dei fatti, e dello schermo, il film convince poco. Una lunga e ripetuta sequenza di panorami da cartolina, con la stessa montagna ripresa all’alba, a mezzogiorno, al tramonto, con le nuvole rosa, nascosta dalla nebbia, durante un temporale, con la luna piena… Ripresa sempre dallo stesso punto, ok, grazie, abbiamo capito che è bella. Passiamo oltre. I boschi, anche loro fatti vedere in mille modi: sotto al sole, nella nebbia, sotto la pioggia, con la nuvoletta passeggera e il vento che piega le fronde degli alberi e accarezza i prati. Quasi un volantino pro-trekking dell’ufficio turistico.
Poi, la storia. Una mezz’ora buona di facce legnose, ambienti bui, stalle e osterie, fino alla sfida di Pietro «Ci vado io a prendere el diaol». Dopodiché l’azione passa nei boschi, con Domenico alla ricerca del padre, aiutato da una improbabilissima contadina (Lucia Mascino), che di contadino non ha nulla e sembra più una starlette anni ’50, e stendiamo un velo pietoso sulla smaccata pubblicità a una famosa marca di occhiali…; il ricongiungimento col genitore e l’ammorbidirsi del rapporto tra i due, fino al catartico incontro/scontro con l’orso e alla soluzione della vicenda. La sceneggiatura zoppica e non aiuta, e la ricostruzione ambientale neppure, con l’imbarazzante scena finale in una cava, dove gli operai vestiti di tutto punto zappettano con una vanga da orto e il capocantiere ha i capelli lucidi e i baffetti sottili più adatti a un mafiosetto siciliano che a un rude uomo delle valli dolomitiche.
Si salva, e alla grande, Marco Paolini, che anche al cinema si riconferma attore di talento, disegnando un montanaro tutto spigoli e ruvidezze.

“La pelle dell’orso”, di Marco Segato, con Marco Paolini, Leonardo Mason, Lucia Mascino, tratto dal romanzo “La pelle dell’orso” di Matteo Righetto (Guanda editore)