(di Andrea Bisicchia) Mi sono chiesto, più volte, perché autori e registi saccheggino in continuità sia il Mito, con le sue narrazioni, sia l’ Antico Testamento, con i suoi versetti.
Si tratta, a mio avviso, di un procedimento ermeneutico che, attraverso facili simbologie, spesso più teoriche che pratiche, permette una scelta di continuità tra passato e presente. Siccome sono in molti a farlo, bisogna distinguere la paglia dal fieno.
Il saccheggio non è opera soltanto di gruppi giovanili, ma anche di maestri di scena.
Lo hanno fatto, a livello testuale, Giraudoux, Sartre, Anouilh, Testori; a livello registico, Mnouchkine, Brook, Grotowski, Barba, solo per citare i più importanti; e, in tempi recentissimi, Castellucci e Angelica Liddell, il primo riscrivendo “L’Orestea” e “La Genesi”, la seconda portando in scena alcuni versetti, sempre della Genesi 6, 6-7. Sembra che il teatro di oggi ricerchi il suo futuro, non più nei testi ritenuti paraletterari, ma in qualcosa di diverso, che abbia a che fare con le Origini da cui iniziare un nuovo percorso. Questo flusso continuo tra l’antico e il moderno ha coinvolto persino le più recenti scuole psicoanalitiche, nate dopo quelle di Freud e Jung che, per continuare le loro ricerche, utilizzano le narrazioni mitiche e religiose per confrontarle con le sintomatologie dei pazienti. Si tratta, quindi, di un lavoro scientifico, che, per colpa di qualche incompetente, alcune volte, ha rischiato la banalizzazione, sia delle riscritture che delle messinscene.
Una simile scelta comporta un ribaltamento del teatro inteso come drammaturgia scritta, come lingua che si fa azione, affidando il primato a quello dell’immagine, della figura, del rapporto analogico tra quanto accade sul palcoscenico e quanto lo ha ispirato, magari con l’utilizzo di pochi versetti, i cui significati profondi offrono, al “traduttore” scenico, la possibilità di penetrare una parte del tutto.
Il pericolo in cui costoro incorrono, è quello delle profanazione, perché, spesso, assumono una dimensione ereticale.
Ecco che ancora la terminologia ci trasporta verso un tipo di sacralità , a cui si cerca di pervenire utilizzando la lingua del corpo o quella dei segni.
Il corpo, spesso, è rappresentato nella sua innocente nudità, facendo riferimento a quello delle origini di Adamo ed Eva, a cui fa ricorso la Liddell, al Napoli Teatro Festival (19-20 Giugno), con una sua “Genesi”, per la quale ha utilizzato un trilinguismo, quello spagnolo, russo ed ebraico, per raccontarci la rabbia dell’Eterno che disse: “Io sterminerò l’uomo sulla terra, e con esso il bestiame, i rettili, gli uccelli dei cieli, perché mi pento di averli creati”, questo atto di violenza biblico, riassunto da Girard in “ La violenza e il sacro” è contaminato con la storia di Medea, la cui violenza, a sua volta, è concepita come un ritorno alle tenebre. Riconosciuta come una regista-performer trasgressiva, la Liddell inoltre porta in scena due trasgressori eccellenti: Dioniso e Cristo che, però, non si respingono, ma si abbracciano.
C’è da chiedersi fino a che punto questo connubio, Mito e Vecchio Testamento venga percepito, e persino capito, ma a chi trasgredisce non importa che gli altri capiscano o non capiscano, importa soltanto trasgredire, anche perché, sulla trasgressione, si può costruire una carriera.