(di Andrea Bisicchia) Sulle pagine di questo giornale abbiamo, più volte, creato un dibattito sugli autori che cercarono di abbattere le barriere del Naturalismo e, in particolare, della commedia borghese, smontandone le vecchie convenzioni o, come scrive Francesca Benazzi, “togliendo il divano” dalla scena, spazio del compromesso o della Ragione, quella che aveva trasformato il tragico in drammatico, con la consapevolezza che bastasse ragionare, all’interno di un salotto, per sconfiggere l’irrazionale, tipico della tragedia.
Gli autori che abbiamo trattato sono stati: Rosso di San Secondo, Bontempelli, Savinio. La pubblicazione di “L’uomo che incontrò se stesso” di Luigi Antonelli, pubblicato da Divergenze, ci permette di ritornare su un argomento che Gigi Livio aveva affrontato circa cinquant’anni fa, in una Antologia, pubblicata da Mursia, che raccoglieva quattro titoli, unificati dalla formula “Teatro del grottesco”. Si trattava di “La maschera e il volto” di Chiarelli, “Marionette, che passione!” di Rosso di San Secondo, “L’uccello di fuoco” di Cavacchioli” e “L’uomo che incontrò se stesso” di Antonelli. Ciò che differenzia quest’ultimo dagli altri è la sua dimensione scopertamente favolistica, più in linea con Bontempelli e Savinio, ma anche con il Rosso della “Bella addormentata”. Si tratta di una dimensione presente anche in autori come Ibsen: “Peer Gynt” o come Strindberg: “Per cerca fortuna”, “Il sogno”, dove il fantastico viene coniugato con l’onirico, proprio come accade nel testo di Antonelli.
Si tratta di una dimensione aperta alla favola e all’assurdo che utilizza il fantastico per rompere con l’ordine riconosciuto e con la “pièce bien faite”. Ciò che accomuna questi testi è, soprattutto, l’uso del ridicolo, più volte evocato dai personaggi, un ridicolo che crea sconcerto per il suo carattere impietoso, in Rosso, in particolare, e che può ritenersi una deformazione del grottesco. Insomma, un ridicolo che ha poco a che fare col risibile, proprio perché è la realtà umana a essere ridicola, trattandosi di una malattia, se non di un vero e proprio vizio. Cosa c’è di più ridicolo di un uomo che, vent’anni dopo la scoperta del tradimento della moglie, morta tra le braccia dell’amante a causa di un terremoto, cerca, a ritroso, di capire il motivo dell’adulterio fino a consumarlo con se stesso, grazie all’aiuto del mago, dottor Climt e della sua isola sconosciuta, che si può vedere solo in sogno, dove è permesso che i naufraghi della vita, quelli che Rosso chiama “gli sbandati”, potessero ritrovarsi, magari per farsi beffe di loro stessi o per ripagare certi errori di gioventù?
La commedia fu dirottata da Antonio Gandusio verso la farsa, evitando l’umorismo visionario di Antonelli, il quale era ricorso al fantastico per creare, nei suoi personaggi, una dimensione di libertà, la sola a essere capace di fecondare il mondo reale. Pirandello che conosceva bene Antonelli, dovette ricordarsi del mago Climt quando creò il mago Cotrone, inventandosi un luogo immaginario, quello degli scalognati, certamente meno allegorico e più problematico. Nel testo di Antonelli, c’è un personaggio che si discosta da quelli del tradizionale triangolo adulterino, è quello di Rosetta che rinunzierà all’eternità, offertale dal mago, per sentirsi amata come donna, anche se per poco, perché una malattia improvvisa la condurrà alla morte, tanto che Francesca Benazzi scrive: “la realizzazione del suo desiderio è divenuta una condanna”.
Il volume contiene un breve saggio di Angela Di Maso che ritiene fondamentale il ricorso alla magia “come strumento che permette di riordinare la nostra realtà”, da intendere come “cabalistico ritorno al passato per una nuova visione del presente”, tentativo perseguito da Luciano, protagonista del capolavoro di Antonelli.
Luigi Antonelli: “L’uomo che incontrò se stesso”, apparato critico di Francesca Benazzi e Angela Di Maso, Edito da Divergenze 2019, pp 100, € 14