Il sogno lontano di Simone Toni, ossessione e follia: il “Don Giovanni” di Mozart. E, infine, un glorioso successo

2-12-16-collage-don-giovanniMILANO, venerdì 2 dicembre (di Giorgio Ferrari) Ci vuol coraggio. Coraggio nell’affrontare il Don Giovanni di Mozart e Da Ponte, opera terribile e così scrupolosamente vivisezionata nel corso nei suoi 229 anni di vita da averla resa un corpo santo, invalicabile, agghindato di bellezza e insieme incarcerato nella prigione dorata che le innumerevoli bacchette di fama gli hanno edificato attorno, fissandone per sempre – e non possiamo dire sia stato sempre un bene – la materia, il senso, la prospettiva.
Ci vuol coraggio, dunque, ad allestire un Don Giovanni partendo dalla chiostra minuscola (ma per molti versi così mozartiana) del Teatro dell’Arte di Milano, risfoderando misericordiosamente un’attenzione filologica e una rilettura quasi spietata dell’autografo senza far sconti alle convenienze.
Ci vuol coraggio anche perché di sguardi analoghi sul dramma giocoso di Mozart ve ne sono già stati innumerevoli e uno su tutti – nel suo elegante minimalismo – a nostra memoria giganteggia: quello di Claudio Abbado a Ferrara nel 1997, con la regia di Lorenzo Mariani, con un organico orchestrale cameristico molto vicino a quello originario (ma non dimentichiamoci di René Jacobs e dello stesso Daniel Harding).
Il coraggio tuttavia Simone Toni se lo è procurato, dando corpo, anima, vita al suo personale sogno – un’ossessione, quasi – che ha radici lontanissime, infisse nell’infanzia di questo direttore già primo oboe del Teatro alla Scala ed oggi appassionato interprete con la preziosa orchestra Silete Venti! che guida da una dozzina d’anni.
«Il Don Giovanni – ha dichiarato di recente – rappresenta per me il sogno di una vita intera, trascorsa cercando suoni, vissuta nel folle amore per Mozart. Mai ho pensato che un simile sogno potesse diventare reale… ma al contempo mi rendo conto, tornando indietro nel tempo a ripercorrere tanti momenti della vita, quanto nel nostro percorso umano e creativo il destino e l’invisibile possano essere potente guida». Nervosa e fiammeggiante la sua direzione, a volte vere e proprie scaglie di suoni (la strumentazione originale non consente lassismi e lunghi pedali, tutto si consuma nella rapida epifania che spende tutto nel primo tocco), costruita sulla lettura accanita e rigorosa dell’autografo mozartiano.
L’impresa, come tutte le faccende teatrali, non avrebbe potuto esistere senza l’azzardo e il mecenatismo di Barnaba Fornasetti, che firma il progetto e le scenografie ricamandole con le universalmente note icone della maison (nemmeno il fortepiano Walter è sfuggito al sigillo di Fornasetti). Ne scaturisce un surrealismo lieve che si avvale di immagini e suggestioni tratte dal vasto arsenale iconografico dell’azienda fondata dal padre di Barnaba e dei bei costumi di Romeo Gigli, in bilico fra filologia e ardimentosi azzardi cromatici.
La sera della prima – apparentarla a certi sontuosi allestimenti scaligeri, salisburghesi, berlinesi, viennesi sarebbe fuorviante – fu a suo modo gloriosa. Lode alla compagnia di canto, nonostante l’acustica ingenerosa del Teatro dell’Arte, ove l’orchestra ha varie volte sopraffatto le voci: notevole il Don Giovanni di Riccardo Novaro, ma forse ancor più il Leporello di Renato Dolcini, intrigante e quasi perfetta la Donna Anna di Raffaella Milanesi, senza dimenticare Emanuela Galli e Lucía Martín-Cartón – rispettivamente Donna Elvira e Zerlina – il Don Ottavio di Krystian Adam (sorpresa!, finalmente un Don Ottavio virile) e soprattutto Mauro Borgioni nel doppio ruolo di Masetto e del Commendatore, e lode anche al coro diretto da Marco Bellasi e in particolare alla scelta di rendere immateriale la figura del Convitato di pietra – uno sbuffo di vapore fra un plotone di posate (ovviamente marca Fornasetti), schierate come bugianen alla tragica cena con il Commendatore.
Come Fornasetti per primo ammette, la prima di ieri (si replica domani 3 dicembre) «servirà a far conoscere questo Don Giovanni, in vista delle tre rappresentazioni fiorentine», che avverranno il 10, 12 e 13 gennaio al Teatro della Pergola, dove l’acustica – vi si rappresentò con successo Gluck, Cherubini, Verdi – si preannunzia migliore.
Applausi dovuti anche alla regia e alle luci, al sottile gioco metafisico cui alludono le onnipresenti carte da gioco della bottega Fornasetti sospese nel nulla; ma giova ricordare – come a pochi anni di distanza dalla sera della prima andata in scena a Praga il 29 ottobre del 1787 aveva colto con scintillante intuizione Søren Kierkegaard – che la musica e soltanto la musica, ovvero la geniale sensualità di Mozart intrecciata con i versi di Da Ponte, aveva riscattato il vecchio canovaccio teatrale del Burlador trasformandolo in quel mito dei nostri tempi che resiste ad ogni usura e stagione. Basterebbe ascoltare la musica, solo quella, per comprenderlo. E ieri sera, provvidenzialmente, è andata proprio così.