(di Riccardo Pastorello) – Qualche tempo fa Sabino Cassese ha pubblicato un articolo sul Corriere della sera, nel quale pone l’accento su una distorsione della macchina legislativa dello Stato italiano: solo metà delle leggi italiane sono di proposta parlamentare. L’altra metà è di proposta governativa e poiché dette leggi sono scritte negli uffici ministeriali da dirigenti di provenienza e cultura amministrativa, esse contengono già il relativo impianto amministrativo ovvero un “regolamento”. È presumibile che questo formi uno zoccolo duro di burocrazia.
In parte questo affligge anche le norme che regolano il sostegno dello Stato allo spettacolo dal vivo e in particolare al teatro di prosa. A questo proposito è necessario fare una premessa di carattere generale: i sistemi burocratico-amministrativi esenti da vizi o errori di progettazione non esistono. Ogni sistema, se viene mantenuto troppo a lungo nella logica dei punteggi, presenterà, con il passare del tempo, falle e margini di incompletezza, corruzione intellettuale e l’inevitabile opportunismo degli operatori. Il tutto mascherato da “oggettività della regola uguale per tutti”. Idea falsa e dannosa, ma oggi molto diffusa.
L’attuale strumento che regola il settore (il Decreto 27 luglio 2017 a Firma del Ministro Franceschini) è una sommatoria di regole e obblighi di cui gli operatori, dopo un iniziale periodo di sbandamento, hanno acquisito una notevole, quanto inutile, abilità di previsione e scaltrezza interpretativa della norma e dei suoi strumenti.
Il sistema di valutazione, che avrebbe dovuto basarsi su una presunta oggettività, si è irrigidito ancor più di prima. Manca infatti, nell’impianto e nella gestione del Decreto, la capacità ispettiva da parte del Ministero, anch’esso perso nei meandri della norma da esso stesso emanata e troppo peso è dato a un “carrello della spesa” nel quale è facile infilare quello che serve per non affondare.
Bisogna infatti ricordare che questo sistema fu adottato nel 2015, nella prospettiva di stroncare la “storicità”, intesa come rendita di posizione di privilegi acquisiti da alcuni soggetti giudicati improduttivi o che godevano di presunte rendite acquisite in un passato più o meno remoto.
Il risultato è stato che, da un sistema forse troppo fluido, nel quale l’amministrazione era costretta a assumersi le sue responsabilità, si è passati a un altro inzeppato da punteggi, obiettivi, coerenze, tolleranze, norme di valutazione delle cosiddette “qualità e quantità” talmente numerose e fantasiose da essere, nella sostanza, ancora più inadatte a dare un’immagine reale del teatro italiano.
A questo proposito si veda il decreto 31 dicembre 2020 (pandemia), fatto di quattro paginette che sono state seguite da decine di pagine di risposte (FAQ – Frequently Asked Questions – chissà perché l’acronimo debba derivare dall’inglese…) ai quesiti degli operatori, quesiti che continuavano a essere interpretati dagli stessi funzionari ministeriali di volta in volta in maniera fra di loro contraddittoria.
Insomma, un marasma nel quale alla fine si tollerano ancor oggi le vecchie incrostazioni e un irrigidimento secondo il quale il teatro privato, che agisce sull’intero territorio nazionale, viene isolato dai suoi tradizionali punti di riferimento rappresentati dai grandi teatri a partecipazione pubblica. Come se, in nome di un discutibile localismo senza fondamento, presentare al pubblico dell’intero paese i propri spettacoli fosse qualcosa di incoerente e riprovevole.
La suddivisione della prosa in settori sulla base sia di quanto già esistente che creati fittiziamente dal nulla (i Teatri Nazionali e i Teatri di rilevante interesse culturale – altresì TRIC), la progressiva distruzione dell’esercizio teatrale ridotto a qualcosa a mala pena tollerata, come se i teatri che non producono fossero covi di malaffare e l’aumento dei minimi di attività per ogni settore, ha incentivato una enorme quantità di produzione che non viene assorbita dal mercato e che muore subito dopo essere nata.
In definitiva, un sistema che non può più stare in piedi da solo, perché prescinde da una corretta gestione economica e aziendale del fatto teatrale.
Il tessuto teatrale italiano è inondato di prodotti creati apposta per fare numero e per accedere al contributo dello Stato, con poca coerenza artistica, con minima considerazione e necessità del loro reale peso economico, artistico e aziendale, con il solo scopo di favorire i soggetti che producono e non ciò che viene prodotto. In definitiva, tutti inseguono i numeri, in nome delle attività indicate dal Decreto, con una qualità che sta progressivamente peggiorando perché non vi è più libertà di scelta produttiva e distributiva. In nome del “primum vivere”, tutti si sono affrettati a diventare vittime e complici del dirigismo che trasuda dalla norma ministeriale.
Questo stato di cose, che ha praticamente azzerato il libero mercato culturale basato sulla qualità dei prodotti, sta falcidiando le imprese private serie e incentiva, con allarmante condiscendenza della maggior parte degli operatori, le cosiddette coproduzioni (fino a quattro soggetti) messe in piedi perché, a ogni cambio di teatro, esse risultino una emanazione diretta di questo o quel Teatro Nazionale, TRIC o Centro di produzione e non un’ospitalità, che dal punto di vista della norma ministeriale, è nominalmente irrilevante, al contrario delle norme ante 2015. Tutti coproducono con tutti, in un vorticoso movimento creato apposta per fare entrare dalla finestra ciò che esce dalla porta, non essendo alcuno di quei teatri di produzione in grado di raggiungere da solo gli obiettivi fissati dal Ministero. A parte pochissimi soggetti fra i quali il Piccolo Teatro di Milano, al quale è stata infatti concessa autonomia artistica e gestionale.
Il teatro italiano di qualità, che è ormai ridotto allo stremo, sostiene che queste regole siano arrivate al capolinea e che alla lunga porteranno al collasso anche i più forti fra i soggetti sostenuti dallo Stato.
Per oltre cinquant’anni il sistema teatrale italiano si è tenuto in equilibrio fra domanda e offerta: le compagnie di tradizione, la grande sperimentazione degli anni ’70 e ’80, e i teatri di emanazione pubblica, convivevano in un sistema nel quale le grandi formazioni del teatro privato, ogni due o tre settimane, si spostavano da un grande teatro a un altro e agli spettatori italiani veniva proposto il meglio della produzione nazionale. Carmelo Bene era riuscito persino ad abbattere la barriera fra prosa e mondo della lirica collaborando sinergicamente con il Teatro alla Scala. Continue occasioni per far vedere agli spettatori i migliori prodotti teatrali, tenendo unito il patrimonio culturale della nazione. Insomma, venivi escluso dalle programmazioni dei maggiori teatri se lavoravi male e non perché eri un soggetto privato, pubblico, sperimentale o tradizionale, innovativo o conservatore.
Potremmo discutere molto a lungo su quali siano tutte le cause di questo grave dissesto, ma il principale fattore di crisi, in questi casi, nasce sempre da uno squilibrio fra domanda e offerta. Un’offerta fuori controllo e che esiste solo grazie al sostegno statale e che oggi soverchia di così tanto la domanda, da aver creato un teatro con così pochi spettatori da non essere, in molto casi, un teatro che abbia giustificazione economica e, soprattutto, di missione culturale.
Bisogna inoltre sottolineare che il numero reale degli spettatori da trent’anni a questa parte è rimasto quasi uguale, senza che vi sia stato un reale ricambio delle generazioni degli spettatori. Basterebbe questo a dimostrare il fallimento di un sistema insidiato ormai da altri e ben più efficienti mezzi di intrattenimento, che non hanno però il valore e la coerenza culturale della rappresentazione dal vivo.
Per questo motivo e per liberarci da una mentalità statalista e dirigista, ci sono solo due strade percorribili, due ipotesi da far crescere e maturare quando si presenterà la necessità di un radicale cambiamento di rotta della politica italiana su questi temi di largo significato educativo.
LA PRIMA
Prendere atto che le risorse a disposizione dello spettacolo dal vivo (nel 2019 il FUS si attestava intorno ai 348 milioni di euro e se non ricordo male, Ministro Francesco Rutelli, nel 2005 si era arrivati intorno ai 500 milioni), sono del tutto insufficienti a sostenere il sistema in queste condizioni e che pertanto sarebbe necessario, a parità delle stesse, ridurre i soggetti pressappoco della metà, ponendo così fine alla politica che una volta si definiva dei “contributi a pioggia”, oggi ancora più praticata che in passato. La politica e le categorie devono assumersi la responsabilità di porre fine alla dispersione delle risorse, se non è possibile incrementarle. Larga parte del teatro del quale si sta discutendo, deve essere inviata in via esclusiva alle regioni, potendo lì essere un valido strumento di coesione sociale, invece che di dispersione improduttiva e di assistenza a ogni costo di iniziative di scarsa forza imprenditoriale e spesso anche artistica. Incentivare allo stesso tempo i soggetti in grado di progredire e migliorare costantemente la qualità dei prodotti e dei progetti produttivi.
È estremamente improbabile che quest’ipotesi possa realizzarsi. La politica e soprattutto le alte sfere burocratiche che oggi governano ogni settore del nostro paese, operano sul controllo e l’erogazione delle risorse e difficilmente vi rinunceranno.
LA SECONDA
Al sostegno dello Stato, per la musica, La Scala, quattro Enti Lirici e Santa Cecilia. Per la prosa il Piccolo Teatro di Milano, tre Teatri Nazionali uno al nord, uno al centro e uno al sud, oltre a Roma, tutti riconosciuti come autonomi. Alle regioni i Teatri di tradizione e i circuiti, con esclusive funzioni di ospitalità e funzionamento dei teatri gestiti o convenzionati: del tutto isolati dalla produzione. Per tutti gli altri soggetti, Tax Credit sino al 50-60% dei costi ammessi e coerentemente riferiti alla copertura finanziaria dello Stato, senza minimi, senza inutili chiacchiere su progetti che alimentano spesso un teatro in affanno per insufficiente profilo artistico, culturale e aziendale. Il resto delle risorse lo si ricavi dal mercato culturale e dal rapporto con gli spettatori. Al Ministero un’attività di severissimo controllo sul comportamento fiscale e normativo delle aziende e l’autorizzazione all’accesso delle imprese al sistema.
Il resto delle risorse derivi da un sistema, solido, nel quale l’esercizio teatrale, oggi osteggiato e distrutto, ritrovi una sua ragione d’essere attraverso il sostegno economico che si deve al terminale della catena produttiva.
Via i minimi che obbligano a fare ciò che non si vorrebbe fare, via le chiacchiere che descrivono progetti che quasi nessuno va a vedere e che interessano solo gli addetti ai lavori. Si torni a un professionismo che garantisca in ogni caso, anche per gli spettacoli meno riusciti, un livello di indiscutibile qualità. I giovani si associno alle strutture più grandi e crescano, per poi arrivare a dirigerle, invece di vivere in una perenne, ipocrita e dannosa finta libertà creativa e in indigenza economica e operativa.
Poi, un serio sistema di ammortizzatori sociali che tuteli i lavoratori dello spettacolo e relazioni sindacali più elastiche e intelligenti che tengano conto della ineliminabile debolezza economica del meccanismo teatrale.
Il sistema della sovvenzione diretta è al capolinea, poiché è divenuto inopportuno e pernicioso. Bisogna voltare pagina. O prepararsi a farlo.