La magica scenografia di Mariko Mori in una “Butterfly” surreale e iridescente. E con uno staff di prim’ordine

Desktop1(di Carla Maria Casanova) Se a metterla in scena è una giapponese ci saranno i kimono e i fior di pesco. Ma se la giapponese è Mariko Mori, tutto ci sarà fuorché i kimono e i fiori di pesco. È una “Madama Butterfly” surreale, quella in scena a Venezia, alla Fenice, soffusa di colori pastello appena accennati e con molto bianco, molta luce. E con la firma inconfondibile di Mariko Mori in due sculture, di quelle che l’hanno resa celebre al mondo, come le installazioni monumentali esposte a New York, Tokyo e nei massimi musei europei. Per l’opera pucciniana, ha ideato due enormi volute, la prima che sta su, in mezzo al cielo, l’altra che approda in palcoscenico, entrambe con la stessa forma avvolgente e il materiale non si sa, potrebbe essere (ma ovviamente non è) porcellana, o metallo, o vetro, o madreperla… La luce scivola sopra e le colora con riflessi iridescenti.
Non c’è nient’altro, in scena, fuorché la diffusa profonda luminosità, che pensavamo essere prerogativa di Robert Carsen. Le donne della scena portano lunghe vesti velate bianche, o rosa o verde pallidissimo o cilestrino. Butterfly ha due imponenti spallette ad ali, forse più adatte a Turandot. Mariko Mori non si fa di questi problemi, e nemmeno quello dei capelli biondi dell’interprete, raccolti stretti intorno alla testa, con una vistosa acconciatura floreale.
Va tutto bene, tranne il bimbo giapponesino doc, con zazzeretta ebano, allorché il nocciolo del dramma di Madama Butterfly sta proprio il quel “figlio senza pari” che aspetta Pinkerton, padre ignaro di esserlo. È per Butterfly l’orgoglio e la prova, senza conferma del DNA, che quel bambino “dagli occhi azzurrini” e dai “ricciolini d’oro schietto”, è il figlio ariano davanti al quale il cuore del padre si scioglierà. E infatti si scioglie al punto che verrà a prenderselo, condannando irreparabilmente la madre giapponese al suicidio.
Il bimbo (Dolore) deve essere biondo. È l’unica libertà immotivata, e a maggior ragione perché ovviabilissima, di un allestimento insolito e molto bello, la cui magia è assicurata anche dal regista, lo spagnolo Alex Rigola, anche direttore, dal 2010, della sezione Teatro della Biennale di Venezia. La regia della pucciniana “Madama Butterfl”, creata per la Fenice, è la sua terza incursione nel teatro lirico.
Il taglio in due atti, ha suggerito l’idea di far eseguire il coro a bocca chiusa, intermezzo tra secondo e terzo, dai coristi allineati in fondo alla platea. Perplessa curiosità nel pubblico per scoprire da dove venissero le voci.
Lo spettacolo tiene bene anche sul versante musicale, a cominciare da Amarilli Nizza, che proprio come Madama Butterfly debuttò, vincitrice del Concorso Mattia Battistini e ancora ne è stata grande interprete nella versione fortissima, completamente diversa, creata da Damiano Michieletto per il Regio di Torino. La Nizza ha voce ben strutturata, tecnica solida, dizione accurata e raffinate intonazioni. Fabio Sartori, anche se di imponenza poco corrispondente al giudizio dell’innamorata CioCioSan (“bello è così che non si può sognar di più”…) possiede comunque la qualità principale, che è la voce svettante, parecchio sfruttata nei ruoli eroici. Lunga e onoratissima la carriera di Manuela Custer, di coinvolgente partecipazione. E beninteso piace Elia Fabbian: il personaggio di Sharpless è talmente consolatorio. Un po’ alta la sonorità che Giampaolo Bisanti ha impresso all’orchestra.
Il pubblico, composto quasi esclusivamente da stranieri (ahi ahi, non si potrebbe pretendere un certo decoro nell’abito a teatro?) ha freneticamente applaudito tutto.
Teatro La Fenice – Venezia – Repliche: 2, 4 ,9, 21, 24, 29 maggio, 1 giugno 2014.