MILANO, martedì 2 aprile (di Carla Maria Casanova) L’allestimento (scene di Leslie Travers, costumi Marie-Jeanne Lecca) è notevole. Anche miliardario, se è per quello (nel senso di costoso). La frivola settecentesca vicenda dell’abate Prévost che racconta della scandalosa Manon Lescaut, messa in musica da un sacco di compositori, tutti fatti fuori dall’arrivo di Giacomo Puccini, la vicenda, si diceva, è stata qui trasportata in una stazione ferroviaria inizio secolo scorso.
Direte basta, basta, basta non se ne può più. Invece, in questo caso funziona.
Il plumbeo ambiente molto stile Anna Karenina, con tanto di locomotiva e vagoni, esterni e interni (una sorta di Orient-Express, lussuosissimo) fornisce immagini di estremo fascino. Il porto di Le Havre, atto terzo, è risolto con l’incombere della fiancata della nave mentre sotto, sulla banchina, attendono i piombati vagoni delle prostitute. Molto forte. Efficace. La storia si adegua senza traumi a questo inusitato scenario. Cioè, si adeguerebbe perfettamente se il regista David Pountney, dopo aver ideato questa trasposizione di ambiente, non l’avesse poi riempita a più non posso di idee peregrine e inutili personaggi. Come quello storno di petulanti piccole collegiali che si riferiscono a Manon bambina (e passi) ma che vorrebbero sottintendere losche trame di pedofilia, incesti e stupri (ma chi, che cosa, dove, quando????)
Avete ragione: basta, basta.
“Manon Lescaut”, tornata alla Scala dopo ventun anni (ultima fu quella di Muti/Cavani/Ferretti 1998) è la prima vera opera di Puccini, dopo “Le Villi” e “Edgar”. Andò in scena a Torino il 1° febbraio 1893, diretta da Arturo Toscanini. E fu rivelazione. Seguirono vari ritocchi qua e là. Riccardo Chailly, grande pucciniano, ne ripropone la primissima versione, che comporta alcune pagine in più, che nel libretto si identificano con la nota di Puccini “oppure”. Nella esecuzione si avverte soprattutto la più lunga scena della morte. È stata una esecuzione vivacissima, molto veloce, con toni molto alti. Forse un’intesa per stare al ritmo dei cantanti. O del cantante, vale a dire Marcelo Alvarez (Des Grieux) che ha dei problemi, evidenti fin dal suo apparire. Arriva in scena come per caso, si aggira sperduto, poi si piazza lì, prende fiato e tira fuori una cannonata. Secca, durissima. Respiro. Anche questa è andata! Così per tutta l’opera, senza un passaggio, la parvenza di una modulazione. Una sofferenza, starlo a sentire/vedere. E quel gesto di non particolare signorilità, ripetuto ossessivamente, quasi un tic, di pulirsi la bocca con il dorso della mano. Mi si dice che Alvarez deve bere in continuazione (in effetti la scena, ove possibile, è cosparsa di brocche e bicchieri, cui lui attinge appena può). Per carità, un bicchiere d’acqua non si nega a nessuno, però, se un cantante ha simili esigenze forse è il caso che ci faccia un pensiero. La carriera l’ha fatta, anche bella. A che pro fustigarsi ancora in questo modo.
La protagonista è la uruguaiana Maria José Siri, impostasi nei circuiti scaligeri non si sa bene come. Ha una voce gradevole e corretta e canta tutto. Magari tutto allo stesso modo. Così nella Francesca da Rimini di due stagioni fa, anche lì governata da Pountney il quale, anche lì, si industriò ad aggrovigliarla in scene di amplesso a dir poco grottesche. Ah, gli amplessi della lirica! Registi, attenti. Poche signore possono rispondere in modo realistico.
A completare il quartetto dei protagonisti è il di lei fratello Lescaut (Massimo Cavalletti) che qui si vorrebbe far passare per amante incestuoso (“ma è lo spettatore che deve decidere” dice Pountney). Lui – Cavalletti – si muove bene e canta bene. Meglio ancora fa Carlo Lepore (Geronte) che canta anche tutti gli “oppure” aperti nel libretto. Marco Ciaponi copre con dignità tre ruoli secondari.
“Manon Lescaut” è opera difficile, soprattutto per le esigenze del cast, in primis il tenore. Però, se il mercato attuale questo tenore proprio non lo fornisce, forse si può farsene una ragione e passare oltre.
Chailly ce l’ha messa tutta e gli si deve anche l’avvedutissimo gesto con cui ha impedito durante l’esecuzione tutti gli – eventuali – applausi a scena aperta. Ci sono stati come di dovere alla fine. Con inevitabili buu per la regìa e, mitigati, per il tenore.
Teatro alla Scala – “Manon Lescaut” di Giacomo Puccini. Repliche: 3,6,9,13,16,19,24,27 aprile.
Infotel: 02 72 00 37 44
www.teatroallascala.org