In principio era una novella. Poi Pirandello ne fece un breve atto unico. E Lavia? Un dramma di un’ora e mezzo. Perfetto

MILANO, giovedì 9 febbraio ► (di Paolo A. Paganini) “… Guardi… Le faccio vedere una cosa. Guardi qua, sotto questo baffo… qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Un nome dolcissimo, più dolce d’una caramella: epitelioma… La morte è passata, m’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: Tientelo, caro, ripasserò fra otto o dieci mesi...”
Le quattro paginette del breve monologo che Pirandello trasse da una sua novella, “La morte addosso”, girano intorno a questa frase, che diventa fulcro e motore delle riflessioni sulla vita e sulla morte di un monologante “uomo dal fiore in bocca”, attaccato alle piccole cose con la forza di una inesausta immaginazione. “Attaccarmi così, dico, all’immaginazione, alla vita, come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata...”. E intanto si attacca a un avventore, “uomo pacifico” e banale, schiacciato dai fastidi della vita e della famiglia, poco dopo mezzanotte, in un misero caffè notturno d’un piccolo paesino sconosciuto. L’uomo pacifico, pieno di pacchi e pacchetti per moglie, figlie e amiche delle figlie, ha perso il treno. Ora attende il prossimo, verso mattino…
Pirandello nel ’22 passò dall’archetipo novellistico al breve, fulminante atto unico d’una quindicina di minuti. Lavia ora l’ha ripreso, e, con un finissimo lavoro sartoriale di taglio e cucito, ne ha ricavato un dramma compiuto e rifinito di un’ora e mezzo. No, non ha allungato il brodo con tempi infiniti di pause ed effettistiche attese, ma ha compiuto una vera e propria opera drammaturgica, ricercando pazientemente con la lanterna di Diogene brani, innesti, frasi, osservazioni, definizioni sulla relatività della vita, sull’ineluttabilità della morte, sulla stravagante incomprensibilità dell’universo donna, ricavati dalla produzione novellistica dell’autore siciliano. E che sarebbe ora una bella impresa andare a scovare a uno a uno.
Ne è sortita opera di immenso e gratificante risultato drammaturgico. E va bene così.
In Pirandello c’era dunque quel piccolo trasandato caffè di paese, vicino a un lampione, con l’ombra lunga d’una donna che spia da lontano, nera come la morte, o come una moglie. Si tratta infatti della moglie ancor giovane dell’uomo dal fiore in bocca, che, innamorata e distrutta, lo segue per sorvegliarne straziata gli ultimi giorni di vita per poi morirne, forse, con lui.
Ora, nell’allestimento al Franco Parenti (un’ora e trenta senza intervallo) Gabriele Lavia sposta l’azione nella sala d’attesa d’una deserta stazione del Sud, tetra e maestosa, come un tempio abbandonato.
Questa sala d’attesa, ben più teatrale dello squallido baretto di provincia con lampione e mandolino in sottofondo, è una struttura alta 9 metri in legno di pioppo, con lunghe panchine tra vetrate annerite e un grande orologio in centro che ha smesso di funzionare…
Ed è una notte da tregenda, tra tuoni e sbuffar di sferraglianti treni a vapore. Bellissima. E inquietante come in un film di Ingmar Bergman.
Qui, ora, l’uomo dal fiore in bocca non è più soltanto un monologante intrattenitore di filosofemi sulla vita e sulla morte, ma costringe lo sprovveduto e rassegnato avventore, l’uomo pacifico, a un serrato assedio di domande “metafische”, un tormento che il pover’uomo subisce di buon grado, abituato com’è ad essere sopraffatto dalle sue donne di casa. Ma così facendo viene costretto anche a modeste e impacciate risposte, che servono a rilanciare la foga sempre più soffocante e tormentata dell’uomo dal fiore in bocca. Finché il cielo si rischiara, l’alba si avvicina, e il treno dell’uomo pacifico sta per arrivare.
Chissà se con tutti quei pacchi e pacchetti riuscirà a prenderlo. Voi che ne dite?
Gabriele Lavia, protagonista, regista e adattatore dell’atto unico di Pirandello, che giustamente ora risulta con il titolo di “L’uomo dal fiore in bocca… e non solo”, di una coerente continuità logica e filologica, consente all’attore scene di grande efficacia drammatica, passando dai bassi e acquietanti fondali della speculazione filosofica a incontrollati slanci di pazzia, dalla tranquillità dell’anima a devastanti scene d’isteria rincorrendo la nera ombra della donna all’esterno sotto gli scrosci dell’uragano. Straordinario, seppur con qualche compiaciuto eccesso.
Lavia è affiancato dall’uomo pacifico, Michele Demaria, non più pretestuosa comparsa come in originale, ma quasi alla pari con il protagonista. Bravo. Così come un plauso all’inquietante figura incombente della moglie, Barbara Alesse, misterica e commovente presenza.
Alla fine tripudio di applausi, con nove chiamate in scena.

L’uomo dal fiore in bocca …e non solo”, di Luigi Pirandello. Adattamento e regia di Gabriele Lavia. Con Gabriele Lavia, Michele Demaria, Barbara Alesse. Scene Alessandro Camera. Costumi Elena Bianchini. Musiche Giordano Corapi. Luci Michelangelo Vitullo. Regista assistente Simone Faloppa – Al Teatro Franco Parenti, Via Pier Lombardo 14, Milano. Repliche fino a domenica 19.

INFO Tel : 02 59 99 52 06