In scena, il “Borghese piccolo piccolo” di Cerami e di Mario Monicelli diventa ancora più piccolo. E forse è fuori di testa

MILANO, giovedì 10 gennaio(di Paolo A. Paganini) Le proprietà dell’aritmetica elementare nelle quattro operazioni ci indicarono, da grandi, altre applicazioni di più libero e bizzarro utilizzo. Sappiamo che non si possono sommare generi diversi. Una calza più una mutanda non fa due, ma sarà per sempre uno, cioè una calza e una mutanda. Ma se parliamo di indumenti, e antrambe sono indumenti, dunque un unico genere che le accomuna, faranno uno più uno uguale due indumenti.
Questo traslato matematico ci è venuto in mente considerando i generi artistici, quando sono sistemabili in un sottobosco di criteri distributivi non omogenei, e quindi non identici nella loro catalogabilità.
In altre parole, e per entrare nel merito: letteratura, cinema e teatro non sono equiparabili. È lapalissiano. La letteratura non è equiparabile al cinema, che, a sua volta, non è equiparabile al teatro. Se mettiamo in rapporto il romanzo di Vincenzo Cerami “Un borghese piccolo piccolo” (1976) con la versione cinematografica di Mario Monicelli (1977) non sarà corretto stabilire dei paragoni di qualità e di identità. A sua volta, la stessa versione di Monicelli non si potrà equipararla alla trasposizione teatrale, che ora ne ha fatto Fabrizio Coniglio, al Teatro Franco Parenti (un’ora e venti senza intervallo), con uno staff attoriale di prim’ordine, da Massimo Dapporto a Susanna Marcomeni.
Prendiamo, per meglio capirci, la versione cinematografica di Monicelli, con Alberto Sordi, Shelley Winters, Romolo Valli e, tra gli altri, Paolo Paoloni (scomparso in questi giorni all’età di 90 anni).
Il pluridecorato film è importante, addirittura fondamentale, per alcuni motivi, che hanno un diverso peso nella versione teatrale.
Monicelli, nonostante la presenza di Sordi, evita di far ridere con facilità, sfruttando i soliti e atavici vizi italici, pur denunciandone antichi vezzi: l’untuosità clientelare, la prassi delle raccomandazioni, il gallismo eccetera. Altro che “castigat ridendo mores”! Anzi, con spirito iconoclasta, dichiarerà, come una sentenza di condanna, “l’irrapresentabilità degli italiani per la perdita irreversibile di tutti i caratteri positivi”. Insomma, non c’è più niente da ridere. Addirittura, il Meredetti, nel suo “Dizionario”, dirà: “Monicelli sembra invocare il diluvio universale…”. In un generale decreto di morte per l’intera umanità.
Più sarcastico e beffardo che drammatico, Monicelli, in molte scene, preferisce il paradosso (come per le bare accatastate e ammassate in attesa di sepoltura). Insomma, con “Un borghese piccolo piccolo”, Monicelli sancisce sbrigativamente la fine della satira sociale e della Commedia all’italiana, con tutto il suo mondo di maschere e macchiette.
Da questo momento, poi, Sordi cambierà definitivamente chiave espressiva, mettendo un limite al comico a vantaggio del tragico. E Monicelli si dedicherà a più reali e drammatici problemi della società italiana.
Poteva tutto ciò essere trasferito sulle tavole del palcoscenico? In realtà, nella versione teatrale si è potuto cogliere del film alcuni umori morali e sentimentali, tipici e sempiterni dell’italica genia, più che non altri pessimistici aspetti sociopolitici. Ecco dunque: l’iperprotettività di padri e madri nei confronti dei figli di qualsiasi età; lo spirito di sacrificio per aiutare l’erede maschio; l’umiliazione del padre per pietire e far ottenere una raccomandazione dal capufficio massone e aiutare così – vanamente – il figlio ragioniere a farsdi assumere. Il pover’uomo si sottopone a ridicole genuflessioni, accettando perfino il rito massonico  della Luce per compiacere il capufficio, pur di far vincere il concorso di ammissione al ministero, dove lui (sullo schermo Alberto Sordi, sul palcoscenico Massimo Dapporto) lavora da trent’anni, prossimo ormai alla pensione. E poi ancora: l’esasperato familismo, il maschilismo domestico, la moglie condannata alla cucina, al silenzio e alle consolatorie serie sentimental-televisive.
Non parleremo dunque di “momenti di comicità a tratti esilaranti”. Il “diluvio universale” forse c’è già. E c’è poco da ridere.
Fatti dunque i necessari distinguo, il film con Alberto Sordi e l’allestimento con Massimo Dapporto sono abissalmente lontani uno dall’altro. Il primo affrontava una precisa realtà storica, con ricordi e ferite ancora aperte, servendosi anche di una tiepida conoscenza di discutibili, ma pur sempre rispettati, principi costituzionali, massoneria a parte; il secondo ne rappresenta ora l’aspetto antiquariale, con caratteri e macchiettismi di più esasperata e dolorosa realtà, come la sadica – e imbarazzante – crudeltà di una feroce, spietata vendetta, dopo l’uccisione del figlio, come diritto a farsi giustizia, vista l’inutilità delle leggi, ma con il sospetto di una mente ormai irrimediabilmente alterata.
Con alcuni discutibili limiti registici e scenografici, che non abbiamo sempre condiviso, Massimo Dapporto, nel ruolo del “piccolo borghese”, giganteggia con naturale e matura naturalezza interpretativa, a tratti perfino commovente, nei confronti del figlio, mammone fino alla tenerezza, e nei confronti della moglie, una misurata e convincente Susanna Marcomeni, che morirà di dolore.
Applausi alla fine per tutti. Con alcuni “bravo” all’indirizzo di Dapporto.

UN BORGHESE PICCOLO PICCOLO, tratto dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami, adattamento e regia Fabrizio Coniglio. Con Massimo Dapporto, Susanna Marcomeni, Roberto D’Alessandro, Matteo Francomano, Federico Rubino, musiche originali Nicola Piovani. Al Teatro Franco Parenti. Repliche fino a domenica 20 gennaio.

www.teatrofrancoparenti.it