TORINO, mercoledì 17 gennaio ► (di Carla Maria Casanova) Va bene anche così: un teatro (meglio se non teatro di opera) annuncia: “spettacolo (pantomima, balletto, rivisitazione o altro) sulla musica di XY” e ti offre una sorta di collage, patch work, bric-à-brac (tutti i termini rigorosamente non italiani significano che lo spettacolo in essere ha una matrice diversa dall’opera lirica, la quale è un bel prodotto ruspante squisitamente nostrano). Così uno sa che si tratta di una creazione di natura varia provvista di colonna sonora già sentita. È quello che succede al Teatro Regio, dove, ieri sera, una Turandot di Puccini (si fa per dire, potrebbe essere anche l’Aida) è andata in scena per mano di Stefano Poda, che firma “regia, scene, costumi, coreografia e luci” (e chi più ne ha più ne metta).
Mi dicono che lui gli spettacoli li fa tutti così. Io non ne ho visti altri suoi. Questo (spettacolo) è tutto bianco, con una gonna rossa, due uomini vestiti di nero, e abiti neri femminili per tutto il coro dell’ultimo atto. Ci sono molti ballerini impegnati in coreografie aspre e selvagge genere giapponese (ma qui non siamo in Cina?). I danzatori sono tutti nudi però rigorosamente dipinti di bianco, quindi paiono statue un po’ in movimento, prive di richiami sessuali.
I protagonisti canori non si distinguono dagli altri, cosicché non sai mai chi sta cantando. La stessa protagonista Turandot appare sempre contornata da varie donzelle (tutte vestite come lei, in bianco si è detto) le quali con la bocca imitano il suo cantare. Nella celebre aria “In quella reggia” uno si domanda Ma sta cantando anche il coro? Se la protagonista è mimetizzata e praticamente inesistente, in compenso ci sono nuovi personaggi: vedi una bambina che arriva tenuta per mano da Liù (siccome il coro canta in quel momento “Là, sui monti dell’est, la cicogna cantò” vien fatto di chiedersi se magari l’invenzione del regista vuole intendere che potrebbe esserci un bambino in vista nei programmi procreativi della futura coppia Calaf-Turandot, ma forse stiamo correndo troppo). Comunque la “Divina bellezza” che irretisce Calaf non appare (nemmeno c’è il gong che la chiama). O invece è quella signorina con la gonna rossa, capelli a caschetto e frangetta tipo Valentina di Crepax? No, non è lei. Lei non si sa chi sia.
In verità Turandot è tutta una costruzione mentale di Calaf, fortemente disturbato. Calaf va a risolvere gli enigmi uscendo da uno stanzino dove è accovacciato su una sdraio (lettino di psicanalista?) E passi. Però, per quei pretendenti che hanno perso la testa, Turandot esiste eccome. Se ci fossero dubbi, ecco una bella stanza in cui Ping, Pang e Pong, ministri di corte, stanno imbalsamando i resti (dieci, per la precisione) di quei poveretti.
Bene. Adesso voglio vedere come la mettiamo all’ultimo atto, con la Inesistente, quando lui se la sfruguglia in tutti i modi… Alt. Questa volta l’opera finisce con la morte di Liù (qui il maestro – Puccini – è morto) e dunque il regista, costumista, scenografo, coreografo e autore di luci è salvo.
È stato tutto un sogno, per lui, per lei, per noi.
Andate a darla da bere a qualcun altro.
La Gioconda con i baffi è stata una bella trovata di Duchamp, però, se vuoi vedere la Gioconda di Leonardo, ti conviene andare al Louvre.
Peccato, perché la direzione di Gianandrea Noseda, asciutta e stringata, ha rivelato raffinatezze rare, Rebeka Lokar (Turandot) è soprano di forte personalità e buon rendimento, Jorge de Léon (Calaf) canta con proprietà, senza problemi di registro acuto (d’accordo “Nessun dorma” di Pavarotti è un’altra cosa), In-Sung Sim (Timur) è un bel bassone profondo. Erika Grimaldi (Liù) non ha un timbro speciale, ma “Tu che di gel sei cinta”, cantata in proscenio, ha dato l’esito sperato dell’applauso a scena aperta. Il coro si è comportato da grande, l’orchestra anche. Il pubblico che non aveva mai visto Turandot ha continuato a non sapere di che opera si tratti, quelli che la conoscevano han creduto di vederne un’altra (opera). Per non fare brutta figura, tutto il pubblico ha applaudito. Per quanto mi riguarda, direi che con Stefano Poda posso chiudere. Tutti i suoi allestimenti, mi dicono, sono uguali. Tutti bianchi e con della gente che balla. Non ho chiesto se nuda o vestita.
Torino, Teatro Regio, “Turandot” di Giacomo Puccini. Repliche (con cast alterni) 17, 18, 19, 20, 21, 23, 24, 25.