In uno Stato ideale il teatro è meglio della filosofia, e Canfora mette Aristofane contro Platone

luciano canfora(di Andrea Bisicchia) Nel V libro del “De rerum natura” (vv 1105-1119), Lucrezio sostiene che, se fosse messa in pratica la “vera ratio”, si instaurerebbe un ordine fondato sul principio:”nunquam est penuria parvi”, non c’è penuria quando tutti hanno ciò che basta. Progettare una nuova realtà sociale, fondata sull’eguaglianza, sulla comunanza dei beni, sull’austerità egualitaria è, forse, un’utopia? Luciano Canfora, in un ricco volume, pubblicato da Laterza: “La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone”, mettendo a confronto alcune commedie di Aristofane, in particolare “Le donne in parlamento” e “Pluto”, con alcuni capitoli della “Repubblica”, in particolare il V e il VI, con altri delle “Leggi”, si è soffermato sul concetto di Utopia, su come abbia contraddistinto la politica greca, nel massimo del suo splendore, ed ha utilizzato un metodo contrappositivo, facendo scontrare il filosofo con il commediografo.
C’è da dire che, durante il V e IV secolo, il divario tra filosofia e drammaturgia era poco percepibile; Emanuele Severino, traducendo l’ “Orestea”, ebbe a dire che il primo vero filosofo dell’antichità fosse Eschilo perché, nel suo teatro, si percepiva la concezione filosofica del suo tempo. Aristofane non fu da meno anzi, utilizzando il genere comico, prese di mira il pensiero dei sapienti che si sforzavano di proiettare “la meraviglia”, propria della filosofia, verso l’utopia,facendo ricorso al grottesco e al ridicolo, quando cercava di colpire l’avversario. Per entrambi, il fine da raggiungere era la fondazione di uno Stato ideale, quello della ben nota Kallipolis, per il raggiungimento di una auspicabile “eunomia”. Aristofane ammette di credere più agli uomini di teatro che ai filosofi, lo dimostra nelle “Rane”, dove immagina un viaggio di Dioniso nell’Ade per riportare in vita Eschilo o Euripide, avendo la polis bisogno dei poeti e non dei politici, per riscattarsi e lo conferma nelle “Nuvole” dove prende di mira i Sofisti e Socrate, accusandoli di cialtroneria. Canfora dà voce alla collettività, alle assemblee popolari, alle adunanze deI cittadini, all’isonomia che prevedeva la presenza degli strati medi alla formazione culturale, onde evitare qualsiasi forma di disuguaglianza, concependo l’uguaglianza come sinonimo di libertà.
La commedia, più della tragedia, coglieva gli umori del pubblico, convinto di questo, Canfora sceglie Aristofane come l’autore che seppe dialogare con gli spettatori, sicuramente più di Menandro, perché portò in scena sia la questione sociale che politica, quella stessa che Platone proponeva nella “Repubblica”, dove offriva un suo modello di comunismo, fondato sulla parità tra uomo e donna, fino ad ammettere l’esistenza della famiglia allargata. Anche Aristofane sosteneva la parità tra uomo e donna,benché fosse convinto che la si potesse raggiungere solo disponendo della comunanza dei beni, essendo, questa, il presupposto per una società egualitaria, dove si dovevano mettere al bando le disuguaglianze. Aristofane ebbe il merito di trasformare l’utopia in un terreno di scontro tra teatro e filosofia, tra parodia e riflessione, con un fine pari a quello di Platone: trasformare l’utopia in un bisogno sociale, oltre che morale.
“La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone”, di Luciano Canfora – Editore Laterza, 2014 – pp 436 – euro 18