Inquisizione: roghi e torture a eretici e streghe. Fra epidemie e castighi divini. “E chi non beve con me, peste lo colga!”

(di Paolo A. Paganini) L’Inquisizione, creata come istituzione della Chiesa cattolica contro le deviazioni teologiche e dottrinali dei movimenti ereticali e in nome dell’ortodossia religiosa, si formalizzò già con il Concilio di Verona, presieduto, nel 1184, da Papa Lucio III e dall’Imperatore Federico Barbarossa, attraverso la costituzione “Ad abolendam diversarum haeresum pravitatem”. Lo scopo era soprattutto la repressione del movimento dei catari, che credevano in un mondo dominato dal male, contrapposto al bene di Dio, e negavano l’incarnazione di Cristo. Si erano diffusi nella Francia meridionale e nell’Italia settentrionale.
In seguito, nel 1252, con la bolla “Ad extirpanda”, Papa Innocenzo IV autorizzò la tortura degli eretici, ritenuti colpevoli dall’autorità religiosa e perché rendessero anche all’autorità civile una completa confessione, indicando altri eretici.
Successivamente l’uso della tortura venne esteso anche nella lotta contro la stregoneria.
Con molte esagerazioni storiche e narrative, si scatenò una feroce caccia a streghe, stregoni ed eretici. Il “tribunale dell’Inquisizione”, strumento d’ordinario e frequente utilizzo, processò disinvoltamente sia sospettati di eresia, il più delle volte disgraziati ignoranti e analfabeti, sia presunte streghe, donnette isteriche e superstiziose, magari ignare di stregonerie, riti occulti, misteriosi incantesimi, pratiche orgiastiche, sabba e sortilegi, sia sprovvedute fanciulle ritenute dedite alla magia nera e condannate al rogo, o alla cosiddetta “ordalia dell’acqua”, cioè legate e gettate in un fiume. Se galleggiavano, voleva dire che erano possedute dal demonio, se andavano a fondo significava che erano innocenti…
Dopo secoli di storia, l’Inquisizione (l’Inquisizione spagnola, creata da Papa Sisto IV nel 1478, e andrà ricordato almeno il primo grande inquisitore, Tomás de Torquemada, priore e confessore del convento domenicano di Santa Cruz; e l’Inquisizione romana, o sacra romana e universale Inquisizione, o Sant’Uffizio, istituita da Papa Paolo III nel 1542, contro la Riforma protestante) è ancora un capitolo di oscura e faticosa comprensibilità.
Qualche cifra, relativa al numero delle vittime condotte al rogo nella cosiddetta “caccia alle streghe”: in tre secoli si ipotizza che si aggirasse intorno a 60.000 esecuzioni, l’80% donne (dopo 110.000 processi, celebrati dai tribunali dell’Inquisizione e, in maggior numero, dai tribunali civili).
Citeremo almeno, tra i più famosi processi celebrati dal tribunale dell’Inquisizione, quello a carico di Giordano Bruno, condannato al rogo; quello a Galileo Galilei, condannato per eresia e con l’abiura delle sue concezioni astronomiche; e i cinque drammatici processi, con applicazione della tortura, al filosofo, teologo e frate domenicano Tommaso Campanella.
Va comunque detto, nonostante il cumulo di atrocità, persecuzioni, torture e condanne capitali del tribunale dell’Inquisizione, che non corrisponde al vero che tutti gli inquisitori fossero feroci e fanatici. Molti erano persone oneste, dotte e irreprensibili, impegnate a correggere e far rientrare gli imputati nell’ambito dottrinale della Chiesa, e spesso le sentenze dell’Inquisizione si concludevano con l’assoluzione dei sospettati.
In realtà, in nome del fervore cattolico, l’Inquisizione non solo mirava a combattere le eresie, ma anche a controllare le masse, a dominarle e a limitarne eccessi e libertà, con mano pesante e attraverso la complice e solidale azione dei tribunali laici. Un compito non difficile, grazie all’ignoranza del popolo e a creduloni fanatismi.
Al di sopra delle deviazioni religiose e delle vere o presunte pratiche stregonesche, tutto però passava in secondo piano quando l’esistenza di tutti, laici o religiosi, ricchi o poveri, giovani o vecchi, veniva sconvolta da calamità naturali e soprattutto da eventi epidemici, inarrestabili ed infettivi, come il vaiolo, il colera, la peste, che contagiarono milioni di persone in tutta Europa.
Ovviamente, le pur ricorrenti e disastrose epidemie fornirono tremebonde occasioni di infuocati ammonimenti religiosi e minacce di punizioni eterne, con le quali francescani e domenicani convincevano a pentirsi dei peccati, per salvarsi almeno l’anima se non il corpo. E, dai pulpiti, terribili pene, infernali punizioni, condanne di eterne sofferenze venivano prefigurate a fedeli in silenzio e sbigottiti: tutti peccatori e responsabili del male universale, ma ora decisi al pentimento, a severe pratiche penitenziali, a sofferti mea culpa…
L’antica arte degli scrupoli morali, dei tabù e dei complessi di colpa, creati da parroci di spiccia catechesi, da scrupolosi confessori di campagna e da sentenziosi vegliardi d’antica saggezza, hanno turbato l’anima di intere generazioni che se li son portati dentro tutta la vita, in un tormento d’immaginifiche colpe e di presunti peccati mortali. Retaggio morale, che ha attraversato secoli di storia, giungendo, per assurdo, fino a noi, con liberi pensatori bollati come senza Dio, o cinici comunisti che mangiavano i bambini…

LA PESTE

Fin dal Medioevo – ed ancor prima – le imponenti masse di ignoranti, straccioni e denutriti venivano contagiati dalla più tragica delle maledizioni, dal più terribile dei morbi, la peste, la “morte nera”. Questo flagello, fra i più letali che nei secoli abbia mai colpito l’Europa (con tributi altissimi di vite umane), era senz’altro visto e predicato come punizione divina.
“Pentitevi, pentitevi!”
E alacri inquisitori e convincenti predicatori, imponevano penitenziali autoflagellazioni, spirituali lavacri, purificanti sacrifici. Punizioni ed espiazioni necessarie di un’umanità peccatrice, viziosa, malata, corrotta, materialista. Anche se poi, il dilagare incontrollabile della peste rimaneva ingestibile e fatale, tragica catastrofe senza rimedi, comunque predicata e ammonita come necessaria condanna fisica e morale per purificarsi dal peccato.
Come punizione divina, la peste fu una formidabile, convincente alleata della Chiesa – e dell’Inquisizione – per la redenzione di un’umanità peccatrice. Che però, felicemente peccaminosa, nonostante contagi sofferenze e morte, passata la peste, continuò gioiosamente a dedicarsi alla crapula e alla fornicazione.
Eppure, nella ricorrente e regolare cadenza di catastrofiche epidemie, una al secolo, o giù di lì, molti cominciarono a sospettare che ci fosse qualche altra causa oltre al peccato, come per esempio la mancanza di igiene, le pulci, e i ratti (v. “La peste” di Camus). E, tanto per prendersela con qualcuno, accusarono vagabondi, mendicanti, emarginati. Ed ebrei.
La peste, nota da 3000 anni, è stata un vero flagello dell’umanità, dall’Asia all’Europa, con milioni di morti. Qualche data storicamente vicina a noi, accennando almeno alla peste di Atene, descritta da Tucidide nel 430 a. C. o al “De rerum natura” di Lucrezio.
1347: a Genova e poi in molte parti d’Italia, e infine in tutta Europa fino al 1352, la peste sterminò tra il 25 e il 50% delle popolazioni, circa 20 milioni di vittime.
1348: a Venezia, proveniente dalla Dalmazia, via mare, attraverso imbarcazioni mercantili, dei 110.000 abitanti sembra che ne morissero 37.000. Nello stesso anno, a Firenze, provocò la morte di 3/5 della popolazione.
1500: a intervalli regolari, la peste si diffuse nelle città del Nord.
1579: la peste fece una carneficina a Genova (24.450 morti).
1630: la peste a Milano (la peste “manzoniana”). La data segna anche il prudente abbigliamento dei medici (v. foto sotto), che indossavano un mantello cerato, guanti protettivi, una bacchetta, con la quale venivano sollevate le vesti degli ammalati, e una buffa maschera a becco adunco, nella cui protuberanza erano messe erbe aromatiche e officinali (poi diventata maschera carnevalesca).
1656: ancora a Genova, dove, di centomila abitanti, sopravvissero solo 30.000.
1749: Messina e Reggio Calabria.
1855: una delle ultime epidemie di peste a livello mondiale.
2020: il Coronavirus. La nuova peste? In questa occasione, viene spesso citata l’Influenza Spagnola, che durò dal 1918 al 1920, e che portò alla morte centinaia di milioni di persone.

QUANDO DIVENNE ARTE

Ovviamente, Peste e Inquisizione hanno fornito ricca e generosa materia per racconti, romanzi, opere, drammi teatrali. E film, come “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman (1957), così ricorderemo anche Max von Sydow, morto ai primi di marzo, indimenticabile interprete del Crociato che gioca a scacchi con la morte in una Svezia colpita dalla peste; o come il romanzo “Il nome della rosa” (1980) di Umberto Eco, poi film nel 1986, regia di Jaques Annaud, con Sean Connery.
La letteratura ci offre una infinità di opere sulla peste. A cominciare dalla Bibbia e i già citati Tucidide e Lucrezio, e proseguire con il mito sofocleo di Edipo, che, ignaro, uccise il padre, sposò la madre, e causò le ire degli dei, che scatenarono su Tebe il flagello della peste, prima che Edipo si accecasse, la madre Giocasta s’impiccasse, e lui andasse povero e maledetto ramingo per la Grecia.
Ben più gioioso e felicemente carnale il “Decameron” del Boccaccio. Una compagnia di dieci goderecci giovani libertini, in fuga dalla peste del 1348, che si era abbattuta su Firenze, si rinchiusero lontano, in una villa di campagna, passando il loro tempo a raccontarsi storie (nel 1971 film di Pier Paolo Pasolini, e nel 2015, film dei fratelli Taviani con “Meraviglioso Boccaccio”).
E poi l’indimenticabile peste (1630) de “I Promessi Sposi”. E “Diario dell’anno della peste” (1722) di Daniel Defoe. E “La peste” (1947) di Camus. E la peste di “Morte a Venezia” (1912) di Thomas Mann (e nel 1971 film di Luchino Visconti).
Ed anche una sola battuta cinematografica rese celebre la peste. Nel film “La cena delle beffe”, diretto da Blasetti nel 1942, tratto dall’omonimo dramma di Sem Benelli, con il seno nudo di Clara Calamai, che le procurò l’anatema delle autorità ecclesiastiche (e il v.m. 16), Amedeo Nazzari dirà la battuta divenuta popolare: “E chi non beve con me, peste lo colga!”. E un altro film, “L’armata Brancaleone” (1965), diretto da Monicelli, smitizzò la mortale drammaticità della peste con Vittorio Gassman in una esilarante scena di seduzione, andata buca, con l’affascinante vedova Maria Grazia Buccella…
Infine, citeremo la straordinaria metafora Le Théâtre et la peste in “Il teatro e il suo doppio” (1938) di Antonin Artaud (“come la peste, il teatro è una crisi che si risolve con la morte o con la guarigione”, e, per Artaud, la guarigione era la rifondazione, il rinnovamento, la ricostruzione del teatro).

LA CENSURA

L’Inquisizione, nell’ultimo periodo (dal 1668 al 1820, quando fu abolita definitivamente), smise le sue crudeli funzioni di crudele custode dottrinale della fede contro streghe ed eretici. Con più innocue ma non meno pesanti violenze liberticide, il tribunale si dedicò alla repressione delle libertà di opinione, impedendo la propagazione delle idee ritenute eccessivamente progressiste, riducendosi cioè a compiti esclusivamente censori su fatti e azioni contrarie alla teologia e all’etica cattolica. Divenne soprattutto vigile e occhiuta custode dei contenuti e della moralità di testi letterari (l’Indice dei libri proibiti, istituito fin dal 1559), affiancata dagli uffici della censura di
Stato.
Un atteggiamento censorio che veniva da lontano, da Tertulliano (155-220 d.C.), che in “De spectaculis”, opera in cui venivano considerati immorali gli spettacoli teatrali e circensi, concludeva: “Nessuno viene al piacere senza passione, nessuno soggiace a una passione senza cadere in peccato”…
Letteratura e teatro ne fecero sempre le spese, a causa della suggestione dei loro contenuti morali (specie di natura sessuale), ideologici e politici, intervenendo con censure, editti, condanne e anatemi, più o meno pesantemente a seconda della morale corrente nei vari periodi storici.
Limitandoci, per esempio, al periodo a noi vicino, cioè dal Fascismo ai rigori democristiani, basterà rifarsi alla rappresentazione dell’ “Arialda” di Giovanni Testori, allestita da Visconti, con Rina Morelli, Paolo Stoppa, Umberto Orsini, Pupella Maggio, Lucilla Morlacchi, giudicata nel 1961 oscena dalla censura “per turpitudine e trivialità”.
Già l’anno prima, nel 1960, era stato censurato il film “Rocco e i suoi fratelli”, sempre di Testori, regia di Visconti, con Alain Delon, Annie Girardot e Renato Salvatori.
Gli occhiuti e zelanti censori di Stato mai si trattennero dall’usare forbici o decreti, per chiudere la bocca a guitti, scavalcamontagne, comici e attori. E che da morti finissero in terra sconsacrata!
C’è anche da dire, però, che il teatro era spesso considerato, ed era in realtà, un ameno luogo di perdizione più che non uno strumento per l’elevazione culturale e morale del popolo. La Chiesa ufficiale non faceva troppe distinzioni fra mendicanti, vagabondi e attori, spesso considerati “ministri di Satana”. E nemmeno le autorità civili li giudicavano stinchi di santi, sapendo o supponendo che non a caso si celasse fra loro qualche individuo reo di qualche delitto… «Bisogna però anche aggiungere che il pubblico, al quale questi attori si rivolgevano, specialmente alla fine del Seicento era spesso formato da uomini e da donne per o più scapestrati e gazzarroni, che consideravano i comici come gente infame, della loro medesima risma. Si diceva infatti: “Un che forte desìa fare il birbante / e trarre i suoi giorni lieti e giocondi, / con una compagnia di vagabondi / va per il mondo a far da commediante…” E questa gente usava il loggione per fare i propri comodi…» (da “Donne venete di Treviso Padova e Venezia fra storia e leggenda”, di Michela Brugnera e Gianfranco Siega. Editrice Manuzio 2010).
Non stupisce, dunque, che a Venezia, nel 1778, l’inquisitore Antonio Maria Tiepolo concedesse, con un decreto rivolto ai Comici, la riapertura del teatro con il seguente, spassoso editto:
Stassera se verze la porta al teatro, ma no se verze la porta al postribolo. Recordeve che vu altri comici se’ persone in odio a Dio Benedeto, ma tolerai dal Prencipe per pascolo dela zente che se compiase dele vostre iniquità. Quel che no avé da far è sta leto dal Secretario. A vu altri co facilità ve se scalda la testa, ma el Magistrato starà vigilante se falaré. Andé là, e operé da Cristiani co tuto che sié comici”.

MLANO, 21 marzo. La peste del 2020.
Epidemia da Coronavirus, Covid-19