Insomma, il ciccione Falstaff è un volgare seduttore da strapazzo? O un godereccio ma squattrinato aristocratico?

falstaffMILANO, giovedì 15 ottobre  ● 
(di Carla Maria Casanova) Falstaff, ultima opera di Verdi, ha sempre creato problemi. Soprattutto dopo l’apparizione di Sigmund Freud che in quanto a problemi la sapeva lunga. Ciò in relazione all’incauta frase di Verdi secondo il quale, “alcuni passi dell’opera sono così comici che la musica mi fa ridere mentre la scrivo.” Qui bisogna intendersi: Falstaff, commedia lirica, è un’opera comica? Il corpulento sir John è un volgare, patetico seduttore da strapazzo, giustamente deriso e vilipeso da tutti, oppure, come in tempi più recenti si vuole intendere, è un vecchio aristocratico un po’ godereccio, andato completamente “al meno” che cerca di rimanere a galla con espedienti più o meno leciti?
Daniele Gatti, che ieri sera ha diretto (molto applaudito) l’opera alla Scala, pare propendere per la seconda ipotesi. Anzi, lui (Gatti) ha anche evidenziato aspetti del tutto trascurati di Falstaff, per esempio tracce di autentica galanteria (risalenti a “quando ero paggio del duca di Norfolk”) che spiegherebbero lo scatenarsi della gelosia di Ford, marito grossolano della bella Alice.”Falstaff – dice Gatti – usa un linguaggio amoroso molto forbito e delicato, cui le donne non sono insensibili”.
Peccato che Falstaff,  nel colloquio di apertura con i suoi due scellerati “servi”, si informi delle sostanze delle dame cui intende far la corte: Alice e Meg, risultano danarose e “tengono le chiavi dello scrigno”. A meno che non ci siano sotto i soliti doppi sensi, sono dunque signore che potrebbero migliorare i tristi languori del portafoglio di Falstaff. Addio “nobili sensi” di sir John!
Fatto preambolo, ci pare che la lettura “leggera” del personaggio si evidenzi soprattutto nella regìa di Robert Carsen (lo spettacolo, nato a Londra nel 2009, è arrivato alla Scala nel 2013, ma è qui per la prima volta diretto da Gatti). Carsen ambienta la vicenda delle “Allegre comari” in una Windsor Anni Cinquanta che occhieggia a Peyton Place o alle Casalinghe disperate, quando la britannica aristocrazia era in fase di declino ma resistevano i Clubs esclusivi e la molto british passione per la Caccia alla volpe. Ottima l’intuizione di vestire Falstaff (“vado a farmi bello”) con l’elegante giacchetta rossa del Cross Country anziché con i soliti ridicoli orpelli. Piacevoli l’ambientazione del ristorante e dell’ariosa cucina.
Nella scena finale del bosco (sempre di difficilissima realizzazione) magari eccessive tutte quelle corna, mentre si parla di “spiritelli e folletti” e non giustificata la sorpresa nella scoperta di “un uom cornuto come un bue” (Falstaff) allorché cornuti in scena sono tutti.
Tutti bravi, con gli eccellenti Eva Mei, Massimo Cavalletti e Nicola Alaimo (protagonista), baritono giovane, nipote di Simone, gradevole e non caricaturale, che smentisce la credenza che Falstaff debba essere interpretato solo da un vecchio cantante. D’altra parte (sia pur con diverso ruolo) anche Gatti affrontò per la prima volta il Falstaff a 35 anni. “È l’opera verdiana che ho diretto di più. L’ho maturata. Adesso la sento con altro animo.” Un’ultima riflessione del Maestro: “Badate che nel finale Tutti gabbati lo canta un coro esclusivamente maschile. Le donne del Falstaff  infatti gabbate non sono”.
Il pubblico ha applaudito senza riserve.

Teatro alla Scala, repliche: 16, 19, 21, 24, 26, 28 ottobre, 4 novembre
www.fondazionelascala.org