(di Patrizia Pedrazzini) “Non può passare, deve tornare indietro”. È sera, e nel quartiere turco di Amburgo il buio è solcato dai lampi blu delle auto della polizia e delle ambulanze. “C’è stata un’esplosione, si allontani”. Un’intuizione, il panico che sale alla testa, il cuore che si ferma, il disperato, interminabile urlo strozzato in gola. In quel piccolo, povero ufficio affacciato sulla strada c’erano suo marito e il loro bambino di cinque anni. Sono le due sole vittime dell’attentato.
Incomincia così, per Katja, il calvario del “dopo”. Il rientro a casa, i giocattoli sul pavimento, i poliziotti, gli psicologi, i parenti, gli amici, i funerali. La fiducia in una giustizia che non arriverà. La decisione di non aspettare oltre, e di farsela da sé, quella giustizia.
Non ha mai amato i compromessi Fatih Akin, regista tedesco di origini turche fra i maggiori della nuova generazione. Orso d’oro alla Berlinale del 2004 con “La sposa turca”, miglior sceneggiatura nel 2007 a Cannes con “Ai confini del paradiso”, Leone d’argento-Gran premio della giuria a Venezia nel 2009 con “Soul Kitchen”, arriva ora nelle sale con “Oltre la notte”, fresco di Golden Globe come miglior film straniero. Per raccontare una storia infarcita di almeno una mezza dozzina di grandi temi. Gli attentati (non però quelli dell’Isis, bensì quelli di matrice neonazista, che fra il 2000 e il 2007 ebbero come obiettivo in Germania persone non tedesche), il razzismo, la giustizia ingiustamente negata (i responsabili saranno presi e processati, ma anche assolti grazie a false testimonianze), i pregiudizi (il marito di Katja, Nuri, era curdo e in passato era stato in prigione per spaccio, mentre la stessa donna, che nei giorni duri dei funerali aveva assunto una dose di cocaina, non verrà, per questo, considerata attendibile), e il più spinoso di tutti: la decisione di farsi giustizia da sé.
Il tutto sul filo del dolore, della determinazione, ma anche dei dubbi e delle debolezze, di Katja. Una intensa Diane Kruger che, ormai lontana anni luce dalla semplicemente bella Elena (il ruolo che interpretò nel 2004 nel quasi-kolossal “Troy” di Wolfgang Petersen e che la fece conoscere al grande pubblico), porta la sua maschera di sofferenza e freddezza, amore represso e dignità, tristezza insuperabile e odio, per le strade buie della città. Un angelo vendicatore metropolitano vestito di nero, la figura snella, il giubbotto, i pantaloni strappati, gli stivaletti, i sottili capelli biondi che appena escono dal cappuccio della felpa. Teutonica, controllata, decisa, lucidamente disperata. E non stupisce che, all’ultimo Festival Cannes, sia stata premiata per questa interpretazione (tra l’altro la prima nella sua lingua madre, il tedesco), come miglior attrice.
Un film energico e schietto. Violento nelle emozioni più che nei fatti. Ma soprattutto un film con il quale Akin ancora una volta non teme di chiamare le cose con il loro nome, immune dalla paura di toccare argomenti, come quello del farsi giustizia da soli, civilmente poco tollerabili, tuttavia reali. Ma anche di lasciar trasparire, alla fine, l’accenno a una domanda: qual è, per una persona che abbia perso tutto, e che quindi non abbia più nulla da perdere, la strada per superare il dolore? E, soprattutto, c’è una strada?
La colonna sonora del film è stata affidata dal regista a Josh Homme dei “Queens of the Stone Age”. Il risultato sono quattordici brani unici, malinconici, disillusi. Perfetti.
Intensa Diane Kruger, biondo angelo vendicatore. Il dolore e il lucido odio di una donna che sceglie di farsi giustizia da sé
13 Marzo 2018 by