Jennifer Garner nei panni di una donna che si fa giustizia da sé. E, armata fino ai denti, fa fuori tutti. All’americana

(di Patrizia Pedrazzini) Una battuta? “Giudici corrotti, poliziotti venduti. Che voglio? Voglio giustizia!”. Un’altra? “Trovatela! Non importa se dovrete bruciare la città!”. Un’altra ancora? “Come pensi che finirà tutto questo? Vi ucciderò uno dopo l’altro!”. E avanti così, per 101 minuti. Tutte le volte che parte un dialogo, perché “Peppermint, l’angelo della vendetta”, del francese Pierre Morel (“Io vi troverò”) è un film di poche parole ma, in compenso, di tanta azione. Col consueto corollario di scazzottate, ammazzamenti, sangue che schizza e via andare.
La trama. Riley è una moglie e madre felice che vive in un tranquillo villino alla periferia di Los Angeles. Un giorno, per la precisione il giorno del compleanno della figlioletta, tre narcotrafficanti le uccidono brutalmente, per un “quasi” equivoco, il marito e la bambina, ferendo lei. Al processo – complici avvocati e poliziotti collusi, nonché un giudice corrotto – gli assassini vengono assolti. Dopo un’assenza di cinque anni, la donna ritorna, trasformata in spietata vendicatrice che, armata fino ai denti e decisamente esperta di arti marziali, farà giustizia non solo dei carnefici della propria famiglia, ma anche dell’intero sistema: dalla giustizia americana ai potenti e inespugnabili (non per lei) cartelli della droga. Glissiamo sul finale.
Ora, è dai tempi de “Il giustiziere della notte” (era il 1974, e c’era ancora Charles Bronson) che il tema della “giustizia fai da te” trova, sul grande schermo, ampio e non di rado meritato spazio (si pensi, per esempio, al recente “Oltre la notte” di Fatih Akin, con Diane Kruger). A decine si contano le pellicole che – femminile o maschile che sia il/la protagonista – vi si sono avventurate. L’argomento, si capisce, è di quelli che “fanno cassetta”. Però anche il migliore dei “revenge thriller” non può limitarsi a un’esibizione di “forza fisica contro stupidità, delinquenza e marciume”, sorvolando alla grande sugli aspetti intimi e psicologici dei protagonisti. Mentre è proprio questo che “Peppermint” fa, puntando solo ed esclusivamente sul motivo della tranquilla donna americana che si trasforma, da normale cittadina, in paladina della giustizia (quella vera). Peraltro in una maniera che rasenta l’inverosimile, nel momento in cui la polizia sarà anche “venduta”, ma Riley riesce, da sola, a far fuori praticamente tutta la mafia colombiana della città, mentre, prima di lei, non esisteva poliziotto che fosse in grado di ammazzarne nemmeno l’ultimo degli scagnozzi.
Detto questo, il film ruota intorno a un unico punto di forza: Jennifer Garner. Sempre bella, all’alba dei 47 anni, corpo sempre agile, palestrato e scattante, viso intenso e sguardo determinato, è dai tempi di “Alias” (la serie spionistica di James Cameron che ha interpretato dal 2001 al 2006 e che le è valsa un Golden Globe) e di “Daredevil” che riveste quasi ininterrottamente ruoli di azione, ricoprendoli anzi molto prima che Hollywood ne valorizzasse l’interpretazione femminile, e che il neonato movimento “#MeToo” ne sancisse la deriva post-femminista.
Con buona pace di una Los Angeles spaccata in due: da una parte la serena periferia abitata da famigliole dedite a feste, torte e cotillons; dall’altra la città degli angoli bui infestati dal crimine, con i disadattati di colore costretti ad albergare in tende ammassate sotto i raccordi. Poveri e abbandonati fuori, ma buoni dentro.