(di Paolo Calcagno) Non sono molti i registi che riescono a raccontare in maniera avvincente stranote vite di personaggi storici (mi riferisco a “The Queen”) liberandole dalla polvere dei cliché martellanti con cui vengono imposte dai media, o ignote esistenze, “regine” delle pagine strappalacrime dei tabloid inglesi, elevandole con rara efficacia narrativa a simboli critici dell’ipocrisia clericale e a esempi quasi inarrivabili dell’amore e del perdono. Nel secondo caso, mi riferisco a “Philomena”, il film di Stephen Frears (già autore di “My beautiful laundrette”, “Le relazioni pericolose”, “The van”), premiato alla Mostra di Venezia 2013 per “la migliore sceneggiatura”, scritta peraltro dal protagonista maschile e produttore del film, Steeve Coogan. In entrambe le occasioni, il maestro britannico del grande schermo, due volte candidato all’Oscar, ha fatto perno su interpreti di straordinario talento, quali Helen Mirren (premio Oscar per “The Queen”) e Judi Dench (candidata all’Oscar, già conquistato con la sua interpretazione in “Shakespeare in love”, con una delle 6 precedenti nomination), divenuta popolarissima con il ruolo di “M”, il capo di James Bond, in vari film sul mitico “007”.
Philomena Lee è ancora un’adolescente irlandese di estrazione popolare quando scopre i piaceri del sesso cui si abbandona con il suo giovane moroso. Purtroppo, la fanciulla rimane incinta, il fidanzatino se la squaglia e la famiglia per nascondere lo scandalo la manda in convento, a Roscrea. Affidata completamente al severo sistema educativo delle suore, la ragazza partorisce Anthony che le viene concesso solamente per un’ora al giorno, durante una pausa dal suo massacrante lavoro di lavandaia del convento. Le ragazze-madri rinchiuse a Roscrea scoprono ben presto che i loro bambini vengono, sì, aiutati a venire al mondo e allevati fino alll’età di tre anni per poi essere “venduti” a facoltose famiglie, spesso straniere, che visitano il convento con la superficialità mondana con cui si frequentano gli allevamenti di cani o di cavalli. Anche Anthony viene strappato con autoritaria inappelabilità all’amore di Philomena e ceduto a una ricca famiglia americana. Siamo in Irlanda, nel 1952, non nel medioevo, quando questa storia accadde realmente per, poi, essere raccontata nel romanzo di Martin Sixsmith “The lost child of Philomena Lee” (in Italia, divenuto “Philomena” e pubblicato da Edizioni Piemme). Invano, da adulta, Philomena cercherà di rintracciare il suo Anthony: le suore di Roscrea non esiteraanno a respingere i suoi legittimi tentativi di avvicinamento al figlio perduto con crudeli bugie su un incendio che aveva ingoiato documenti e certificati, tranne l’illegale contratto di rinuncia a pretese sul bambino, anche negli anni a venire, sottoscritto dalla protagonista del commovente caso. Cinquant’anni dopo, l’ormai anziana signora irlandese incontra un disincantato giornalista in disgrazia, costretto per motivi politici a lasciare il suo lavoro di corrispondente estero della Bbc e di malavoglia divenuto collaboratore di una rivista specializzata in storie di vita vissuta.
Steve Coogan, distintosi in ruoli brillanti sugli schermi e sui palcoscenici britannici, è irresistibile nell’interpretazione del giornalista snob che si degna di seguire la vicenda di cronaca vera, ma non dimentica mai di citare il suo nobile passato di “ex Bbc, ora non più”. Ma contagiosa è anche l’empatia con cui Coogan fa avvicinare umanamente il giornalista a Philomena, via via che la vicenda scorre. E, certo, la prova d’attore di Steve Coogan è elemento fondamentale in questo film, oltre alla maestria narrativa di Stephen Frears, delicato e premuroso nel riprendere la spontaneità e la semplicità di Philomena, scrollando di qualsiasi melassa la sua candida caparbietà nel voler scoprire il destino del figlio; e oltre al talento da attrice di razza di Judi Dench che ci conquista con l’entusiasmo del personaggio (Philomena si eccita infantilmente sulla piccola vettura da trasporto dell’aeroporto e la paragona all’auto scoperta del Papa) e ci commuove con la sua devozione religiosa che le consente di accettare l’immenso dolore che le riserva la sua appassionata ricerca e di perdonare le suore che hanno manovrato il caso con protervia e violenza integraliste da Santa Inquisizione. Non ci sembra giusto per chi vorrà vedere il film di Frears riferire i dettagli dello sviluppo della storia di “Philomena” che, pur senza essere un capolavoro, si distingue per essere un film ottimo, sostenuto da una sceneggiatura precisa ed efficace nell’alternare il divertimento godibile della commedia all’intensità coinvolgente del dramma.
“Philomena”, di Stephen Frears, con Judi Dench e Steeve Coogan. Gran Bretagna 2013