“La bottega del caffè”. Quanto veleno in fondo a quella tazzina. Memorabile Don Marzio d’uno strepitoso Pino Micol

PINO_MICOL_Bottega.ph.Filippo ManziniMILANO, mercoledì 17 giugno  ●
(di Paolo A. Paganini) La prima stesura della “Bottega del caffè” del pacioso avvocato veneziano (ma quanto veleno sul fondo di quella tazzina di caffè) è del 1750, in dialetto veneziano, con tanto di Brighella e Arlecchino. Ed ebbe grande successo, con quache minaccia rivolta all’autore da quanti si ritenevano ritratti nel malefico spione e maldicente Don Marzio. Di lì a tre anni, però, Goldoni la girò in lingua toscana, “rendendola più universale, cambiando in essa non solamente in toscano i due Personaggi suddetti, ma tre altri ancora, che col dialetto veneziano parlavano…” (dalla prefazione di “L’autore a chi legge”).
Personalmente, ho sempre ritenuto la riscrittura toscana, più che legittima, doverosa, ancorché a scapito del divertimento. La “Bottega” passava così dalle velenose perfidie del “Caffè”, travestite nelle paradossali esagerazioni delle maschere del carnevale (l’azione va dalla mattina alla sera d’un giorno di carnasciale), alla veridica, o veritiera, realtà delle umane – ed universali – perfidie. Se con il dialetto si sganasciava, in lingua si sorride col dentino sollevato. Quello divertiva, questa fa male al cuore.
Così ragionavo vedendo ora “La bottega del caffè”, regia di Maurizio Scaparro, con uno staff attoriale di prim’ordine, in scena al Piccolo Teatro Grassi.
Scaparro – con la sottile “perfidia” dell’indifferenza – ha ancor più calcato la mano sul mostruoso repertorio di nequizie, maldicenze, stolidità di questa filibusta di personaggi di effimero peso morale, ma di corposi sbandamenti comportamentali. Tutti escono di strada. Tutti si fanno male. O quasi. L’unico personaggio positivo è Ridolfo, il padrone del Caffè. Ma anche su questo personaggio qualche lettura critica ha avanzato seri dubbi, ritenendolo ancor più machiavellicamente perfido di don Marzio. Non sono d’accordo. Non sarebbe stato nelle corde del Goldoni, il quale, per carattere, aveva bisogno di trovare una via di fuga a tante disonestà e maldicenze. E Ridolfo, coscienza critica e un po’ grillo parlante, anticipa il finale catartico dei tre atti della commedia, quando i mariti rinsaviscono, il biscazziere baro e disonesto va in prigione, il falso e fedifrago Conte Leandro, ch’è in realtà un modesto contabile torinese, viene smascherato dalla moglie che lui aveva abbandonato per correr dietro a una ballerinetta in cerca (povera lei) di quarti di nobiltà, l’ingenuo mercante Eugenio, che ha dilapidato un patrimonio nel gioco, scopre nella buona moglie la remissione dei peccati (finché dura), e Don Marzio, fonte inesauribile di calunnie e maldicenze, alla fine sputtanato e ignominiosamente scacciato… Un finale posticcio, ma funzionale. L’onore della Serenissima si era salvato!
La commedia (due atti, uno di un’ora e dieci, l’altro di 35 minuti), con qualche ininfluente taglio, è stata condotta da Scaparro con “tendenzioso” equilibrio. Fermi restando i veleni di fondo, ha sottratto a Don Marzio (un superbo Pino Micol) i tratti sulfurei della sua smodata maldicenza, lui stesso vittima: come Eugenio, ottuso giovinazzo vittima del vizio del gioco. Lui, Don Marzio, vittima della propria stolida leggerezza e della propria incapacità di tenere a freno la lingua, a costo di inventarsi quello che non è, e di vedere quello che non esiste, con l’ingenuità bambinesca di non rendersi conto delle sue terribili marachelle. Ma prima dunque del glorioso finale, tutto diventa un gioco al massacro in punta di spilli, sì, che tuttavia calano giù come fendenti… E, in questa bottega veneziana, espressione mercantile di una città che ormai non ha più niente di nobile, di grande, tutti lasciano sul campo qualcosa delle loro miserie: le donne (che poi sono le vere vittime), qualcosa della loro reputazione; gli uomini qualcosa della loro fasulla virilità e onorabilità.
Di Don Marzio abbiamo detto. Il suo contraltare è il caffettiere Ridolfo, l’ottimo Vittorio Viviani, a sua volta vittima di un eccesso di bontà, che qualche volta ha slanci di nevrosi missionaria. Il mercante Eugenio è Manuele Morgese, che sposa bene la sua parte di sprovveduto giocatore bamba e merlo. Mentre Ezio Budini entra egregiamente nei panni dell’avido, mellifluo, disonesto biscazziere Pandolfo; e Ruben Rigillo, che è il falso Conte Leandro, nella bisca gli tien banco alla pari come abile e spregiudicato spellatore di gonzi. Bene tutti gli altri, da Carla Ferraro a Maria Angela Robustelli, da Giulia Rupi a Alessandro Scaretti.
Un plauso particolare alla scena e ai costumi di Lorenzo Cutuli, così ben fusi in omogeneo equilibrio con i caratteri della commedia e con lo spirito dell’epoca. Partecipi consensi generali per tutti alla fine.

“La bottega del caffè”, di Carlo Goldoni. Regia Maurizio Scaparro. Con Pino Micol, Vittorio Viviani. Al Piccolo Teatro Grassi, Via Rovello 2, Milano. Repliche fino a domenica 21.