MILANO, sabato 11 luglio ●
(di Patrizia Pedrazzini) “L’uomo è una fune sospesa tra l’animale e il superuomo, una fune sopra l’abisso”. Quando, fra il 1883 e l’85, Friedrich Nietzsche faceva pronunciare a Zarathustra queste immortali parole, la Prima Guerra Mondiale era ancora di là da venire. O forse no. In realtà le premesse c’erano già tutte. Se non in Europa, nella neonata Italia: la povertà diffusa, le questioni sociali irrisolte, la fame, malattie endemiche come la malaria. Ancora qualche anno, e sarebbe stato il turno delle cannonate di Bava Beccaris a Milano, e delle prime imprese coloniali, in Libia. Così, all’ombra delle scintillanti insegne della Belle Epoque, già aleggiava e si diffondeva il cupo alito della Morte. Perché solo alla nera Signora, alla sua falce, alla sua lugubre figura, avrebbero portato altre immortali parole, questa volta di Filippo Tommaso Marinetti: “La guerra, sola igiene del mondo”.
C’è una mostra, a Milano, che tutto questo (e quello che ne seguirà) lo racconta, ma sarebbe meglio dire lo trasmette, in maniera assolutamente egregia. Rientra nel progetto espositivo “La Grande Guerra. Arte Luoghi Propaganda” e va sotto il titolo “Arte e artisti al fronte”, alle Gallerie d’Italia in Piazza della Scala fino al 23 agosto.
Oltre duecento opere, fra dipinti e sculture, uscite dalle menti e dalle mani di 54 artisti (e basterà ricordare Pietro Canonica, Carlo Carrà, Galileo Chini, Emilio Longoni, Mario Sironi, Adolfo Wildt, Felice Casorati, Ottone Rosai, Gino Severini, Ettore Ximenes) e sostenute, all’interno dei singoli settori, da documentari storici, pellicole, riprese, spezzoni di film. Da “Il terremoto di Messina” di Luca Comerio, pioniere del cinema italiano, del 1908, a “La Grande Guerra” di Mario Monicelli del ’59.
Suddivisa in quattro sezioni, la mostra fa capo al 1890 quale anno chiave del periodo che si configura come il “lato oscuro della Belle Epoque”, caratterizzato, sotto il profilo artistico, dalla pittura di denuncia sociale e da opere visionarie, di grande impatto visivo e spesso di dimensioni monumentali, nelle quali prevale il cupo senso di una fine imminente. A seguire, la sezione riservata all’Interventismo, cui fa seguito – e si contrappone – quella dedicata alla guerra fra realtà e rappresentazione: le immagini del fronte, i cannoni, i campi di battaglia, la miseria, la sofferenza, il dolore. Infine (e la mostra si “conclude” idealmente nel 1935) la Vittoria, la nascita del mito, i monumenti solenni. Ma anche, ancora una volta, i problemi di sempre che riemergono, il malessere sociale che non accenna a dare tregua, l’euforia che sfocia nelle rivolte contadine e negli scioperi operai. Ci penserà, di lì a poco, il Fascismo.
Liberty, Simbolismo, Divisionismo. Quadri e trittici neri come la Morte, illuminati da bagliori lontani che appena consentono di intravedere profili cupi e scheletrici. O ravvivati, al più, da dettagli rosso sangue. Albe tragiche. Operai intirizziti dal freddo. Gente affamata. Donne al Monte di Pietà. Bambini dai grandi occhi avvolti in scialli neri. Morti in mare. Morti sui fili spinati. Morti fra le nevi dei monti. E buio dappertutto. E dove c’è una luce, come nella stanzetta nella quale, intorno a una mappa, otto ufficiali si impegnano a redigere il piano d’attacco, è solo per far risaltare, fuori, la scheletrica figura della Morte che, appostata alla finestra, sembra sogghignare mentre affila, con gesto abituale, la lama della falce. È solo questione di tempo.
Quel tempo che a tanti, troppi, la guerra toglierà. “Mi dolgono, fanciullo, le pene che più non mi dai”, scriverà Margherita Sarfatti nel 1921, per la morte del figlio Roberto. Ecco, alla fine di tutto, le madri dolenti, novelle Pietà, sulle tombe, con i figli morti fra le braccia, con le mani protese quasi a benedire, sedute accanto a una medaglia al valore. E poco importa, allora, che la tomba, ricoperta dal Tricolore, sia quella di un eroe.
“La Grande Guerra. Arte e artisti al fronte”, Milano, Gallerie d’Italia, Piazza della Scala 6. Fino al 23 agosto.