MILANO, venerdì 18 febbraio ► (di Patrizia Pedrazzini)
“In effetti, la fotografia è per me un modo di disegnare la realtà, sottolineando forme, luci e ritmi e rispondendo intuitivamente a un soggetto, in una continua lotta contro il tempo per catturare il momento decisivo”.
Quando, nel novembre del 1948, la rivista “Life” gli commissiona un reportage sugli ultimi giorni di Pechino prima dell’arrivo delle truppe di Mao, il francese Henri Cartier-Bresson ha quarant’anni. Ha appena fondato a New York, con George Rodger, David Seymour, Robert Capa e William Vandivert, l’Agenzia Magnum. È già uno dei pionieri del fotogiornalismo, il solo cui verrà riconosciuto l’appellativo di “occhio del secolo” (e meno male che la fotografia non è stato il suo primo amore, come invece la pittura e il cinema).
Così Cartier-Bresson mette in valigia l’amata Leica e parte per la Cina: il soggiorno, previsto di due settimane, durerà dieci mesi, trascorsi soprattutto nella zona di Shanghai. Lascerà il Paese pochi giorni prima della proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, il 1° ottobre del ’49. Ma solo per farvi ritorno dieci anni dopo, nel 1958, a documentare, per quattro mesi, gli esiti della Rivoluzione.
“Henri Cartier-Bresson. Cina 1948-49/1958” è la mostra che, al Mudec di Milano fino al prossimo 3 luglio, documenta e racconta quei due storici reportage: oltre cento stampe originali, più documenti d’archivio, lettere, riviste d’epoca, dalla caduta di Nanchino e del Kuomintang (il partito di Chiang Kai-shek, poi riparato a Taiwan) al “Grande balzo in avanti” di Mao Zedong.
Nel mirino dell’obbiettivo, la vita di tutti i giorni, la gente, il lavoro, la povertà e la fatica, le masse e la solitudine di un intero, grande popolo.
Con una differenza: mentre gli scatti del reportage del ’48 rivelano, da parte dell’autore, una totale libertà d’azione, quelli di dieci anni dopo, realizzati dal fotografo con l’obbligatoria scorta di una guida, appaiono, per certi aspetti, più “accompagnati”: luoghi selezionati, complessi siderurgici, grandi dighe in costruzione, pozzi petroliferi, paesi rurali “modello”.
Una sorta di censura preventiva che però non impedisce a Cartier-Bresson di mettere letteralmente nero su bianco la realtà che sta alla base di tanta industrializzazione forzata: lo sfruttamento del lavoro umano, il controllo costante dell’esercito, l’onnipresenza della propaganda. I dieci anni che sconvolsero un Paese, verrebbe da dire parafrasando John Reed (e i suoi “Dieci giorni che sconvolsero il mondo”, sulla Rivoluzione d’Ottobre): immagini ancora oggi fra le più note della storia della fotografia, come quella che ritrae la massa accalcata di persone in coda per poter acquistare oro, o la fila di bambini dagli occhi tristi che aspettano la distribuzione di riso, o la mendicante seduta a terra con il proprio piccolo fuori da un ristorante musulmano. O ancora l’operaio intento a pulire con uno straccio un macchinario fra i pozzi petroliferi del deserto dei Gobi.
Comunque tutti scatti che, supportati dalla reputazione del loro autore e dalla competenza della Magnum, segneranno, in Occidente, l’immagine della Cina di Mao fino almeno agli anni Settanta.
La mostra, che approda per la prima volta in Italia, è stata realizzata grazie alla Fondazione Henri Cartier-Bresson ed è prodotta da “24 Ore Cultura”.
Da vedere.
“Henri Cartier-Bresson. Cina 1948-49/1958”, Milano, Spazio Mudec Photo, via Tortona 56, fino al 3 luglio.
www.mudec.it