MILANO, mercoledì 16 maggio ► (di Paolo A. Paganini) Il film “La classe operaia va in paradiso”, regista Elio Petri, sceneggiatura Ugo Pirro, con Volonté, la Melato e Randone, è del 1971. Cioè quando i fermenti del marasma politico, sociale, ideologico, istituzionale, esploso nel ’68, dopo tre anni, anziché quietarsi, si erano fatti ancora più duri, esasperati, violenti, ancor più radicalizzati tra le opposte posizioni ideologiche del sindacato, della nuova sinistra, delle contestazioni studentesche, degli scioperi e delle lotte operaie, tra manifestazioni di piazza e occupazioni di scuole e di fabbriche, contro le sempre più violente repressioni delle forze dell’ordine.
Un’ansia di rinnovamento e un tacito sommovimento rivoluzionario si erano estesi ad ogni ceto sociale, non escluso il mondo cattolico. Un sentimento comune, ancorché confuso, si concretava nella necessità di una società da riformare, contro il famelico sfruttamento produttivistico dei padroni a spese della classe operaia, sempre e ancor più soggiogata alla disumana sudditanza dell’uomo alla macchina e alle esasperate dinamiche della produzione.
La trasposizione del film di Petri ora è arrivata in teatro, al Piccolo Teatro Grassi (una sgroppata in due tempi, di un’ora e quaranta e di un’ora).
Nel ’71, il film aveva fatto il miracolo di mettere tutti d’accordo, critici, studiosi, politici, storici, nel giudicare negativamente la pellicola falsa, macchiettistica, un’operazione inutile, tra realismo, erotismo e commedia all’italiana, tra Marx e De Amicis. Morandini si azzardò con tre stellette. Mereghetti non andò oltre le due.
Ora, in teatro, poteva diventare una ghiotta occasione di bilanci, inserendosi, a cinquant’anni dal quel fatidico maggio ’68, nel grande coro dei celebranti e dei tuttologi, con un’operazione, però, magari più modesta, ma più sincera e più serena nel ricordare a quanti allora non c’erano che cosa fosse la vita a Milano. E quante esaltanti illusioni e quante amare delusioni, quante speranze e quante umiliazioni ci fossero allora nel mondo operaio milanese. Oggi le fabbriche sono scomparse, la classe operaia non esiste più ed è scomparso anche il sogno del paradiso.
Per tutto ciò, lo scrittore Paolo Di Paolo e il regista Claudio Longhi avrebbero potuto affrontare una più riposata e forse definitiva visione della storia, avrebbero potuto affrontare finalmente una serena disamina di quel’abissale macroscopico fallimento che fu il ’68, con tutte le sue belle utopie, con tutti i suoi romantici ideali, vissuti non come nuova rinascita di valori e di ideali. Non c’è nessuna palingenesi nell’aria, ma proprio perché in ultima analisi non molto è cambiato, nell’uomo, in questi ultimi cinquant’anni.
Longhi e Di Paolo hanno invece navigato a vista tra i logotipi dei luoghi comuni, tra le consunzioni di un insistito stile predicatorio in un mondo di falliti con qualche Robespierre, tra amori rubati in camporella, in una generale dislessia di sentimenti e d’incapacità comunicative, tra invettive di sinistra, pugni alzati, scioperi velleitari e un gran vociare di megafoni tra palcoscenico e platea.
Di per sé, come dichiarato, il lavoro è più un’allegoria dei nostri giorni che una storica ricostruzione di quei tempi confusi e velleitari. Ma, partendo dalla perdita di una falange sotto la pressa di una fabbrica, e conseguenti proteste, scioperi e licenziamenti, crisi isteriche, rivendicazioni e traslocazioni manicomiali, anche sul piano del contingente verrebbe di pensare a più immani tragedie, tanto per essere fedeli all’assunto di una possibile attualizzazione. Leggi: Thissen, Acciaierie Venete, scandali politici, naufragi migratori, e, alla spicciolata, altre centinaia, migliaia di casi di morti sul lavoro (nei primi mesi del 2018, ben 153, mentre nel ’17 sono stati 632 …).
Gli interpreti, quando non diventano elettoralistici e declamatori, son tutti bravi e generosi, con alcune punte di assoluta eccellenza. Ma finché gli attori non protesteranno (ah, il ’68) contro il sopruso di non indicare la distribuzione interpreti/personaggi, dovremo limitarci alla sola pubblicazione dei nomi, e cioè:
Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini.
Musiche e arrangiamenti di Filippo Zattini.
Pubblico entusiasta e soddisfatto, e alla fine applausi per tutti.
Si replica solo fino a domenica 20.
Informazioni e prenotazioni 0242411889
www.piccoloteatro.org