(di Andrea Bisicchia) – La parodia è un genere letterario e, come tale, vanta un suo riconoscimento che risale a Omero e alla sua opera, concepita come una parodia del poema epico, la “Batracomiomachia”, dove a battersi non sono più gli eroi di fazioni diverse, bensì i topi con le rane.
Come tanti altri generi, si distingue per una sua tecnica particolare che consiste nell’utilizzare la struttura metrica di un testo, capovolgendone il significato, o per utilizzarlo a fini propri, trasformandone le qualità lirico-drammatiche in effetti comici, satirici e burleschi, facendo nel frattempo ricorso all’imitazione per raggiungere dei risultati caricaturali o farseschi.
Basterebbe ricordare la notissima parodia della “Figlia di Iorio” di D’Annunzio, fatta da Scarpetta, col suo altrettanto famoso processo, finito con l’assoluzione dell’imputato, per capire l’altra meno famosa parodia, che Martoglio fece della Commedia di Dante e, precisamente, dei primi ventuno Canti dell’Inferno, oggi riproposta da Sara Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla in un volume, pubblicato dall’Editore Maimone, “La Divina Commedia di Don Procopio Ballaccheri”, alter ego dello stesso Martoglio.
Va subito detto che la parodia, come la farsa, non è un sottogenere, anzi presuppone una conoscenza approfondita dell’opera che si intende stravolgere a fini parodistici. Quando Martoglio affida a don Procopio la riscrittura, in dialetto catanese, della Commedia, era ben al corrente di ciò che intendeva fare, benché il suo progetto dovette essere interrotto al Canto XXI, ma è sufficiente leggere quei canti per comprendere l’audacia, anche linguistica, dell’operazione. Dobbiamo, pertanto, a Sara Zappulla Muscarà e a Enzo Zappulla la gioia di poter leggere i versi parodiati da Martoglio e dobbiamo convenire di quanto sia determinante il loro contributo alla conoscenza di quel patrimonio infinito che riguarda la narrativa, la poesia e il teatro siciliano, tanto che, più volte, abbiamo dichiarato che, per i loro studi, meriterebbero il Nobel, trattandosi di un lavoro che dura da oltre quarant’anni e che raccoglie, presso l’Istituto di Storia del Teatro Siciliano, tra testi, saggi, curatele, mostre, un materiale enorme.
Perché Martoglio e il suo doppio decisero di riscrivere la Commedia? Perché, come sostiene il notabile della Civita, pensò di farne oggetto di pubblicazione per il giornale satirico “D’Artagnan” (1889-1904) indirizzando i suoi strali non certo ai personaggi nominati da Dante, bensì ai tanti letterati e intellettuali catanesi, i cui vizi non erano molto diversi da quelli che ritroviamo nei vari gironi infernali, inoltre ci dice che avrebbe utilizzato i versi anche se qualcuno avrà “piedi mancanti” (l’unità di misura del verso), ma non si meravigli perché ne troverà altri “con parecchi piedi in più”. Don Procopio immagina di compiere il suo viaggio in compagnia del poeta Giacomo Patti che lo “conorta” (conforta) e che gli promette di condurlo sano e salvo dallo “‘Nferno” al “Priatorio”, dove lo consegnerà a Cicca Stonchiti che lo condurrà in Paradiso. Quando si troverà davanti alla porta dell’“‘Nferno”, incontrerà tutti quelli che non vogliono essere nominati nel “D’Artagnan”, per lo “scanto” (la paura) di trovarsi dinanzi al terribile Saro Nasca, che dovrà condurli, con riferimento a Catania, nella città “dei lenti” e tra le “cretine genti”.
La prima tappa sarà nel “Limmo”, dove incontrerà personaggi illustri del suo tempo: il Prof. Nino Mazzoni, il poeta sagrestano di nome Romer, il nuticiano (di Noto) Lessio Di Giovanni, ed ancora Puddo Nicotra, presidente della Stisicora e tanti altri letterati.
Nel canto dei lussuriosi, al posto di Minosse, troveremo Tino Pirrotta, filosofo, autore di dodicimila proverbi e al posto di Francesca da Rimini faremo la conoscenza di Francesca di Caltagirone, che morrà per volontà di Aprile di Cimia, per punirla del suo amore per Giorgio Arcoleo. Quindi, attraversando il canto sesto, si troverà tra “mancioni e manciatari” che ascoltano i latrati assordanti di Roberto Trivella, detto Cerbero per la sua “terriboli vucca”, per pervenire, successivamente, nel canto dei superbi e accidiosi, vere e proprie “Teste di mulu”. Quando Procopio arriva nel girone degli eretici, anziché trovare Farinata, si imbatte in tanti catanesi “maccachi”, ovvero vigliacchi, tra i quali Ciccio Albergo e Peppino Difelici; “dritto dall’ombelico” che gli indica tutti i suoi nemici.
Come si può capire, Martoglio ha creato un’opera autonoma rispetto ai Canti dell’inferno, che si caratterizza per un linguaggio tipicamente martogliano, grazie alla ricchezza del dialetto costruito con tante ambiguità etimologiche, incongruenze, contaminazioni, sempre “aperto e creativo”, come lo definiscono i due curatori, ai quali dobbiamo anche dei brevi capitoli dedicati al poeta, al giornalista, al commediografo e al direttore di Compagnie, come quella del Teatro Mediterraneo, dove debuttò Pirandello e dove troveremo autori come Rosso di San Secondo e attori come Musco, Marinella Bragaglia, Mimì Aguglia, Rosina Anselmi, Turi Panfolfini, etc.
Notevole l’apparato iconografico e quello bibliografico.
Nino Martoglio, “La Divina Commedia di Don Procopio Ballaccheri”, Inferno (Canti 1° – XXI), a cura di Sara Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, Edito da Giuseppe Maimone 2021, pp. 216, € 24.